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lunedì 30 marzo 2015

Blue

Qualcuno forse si ricorda di questo post. della mia angst da young adult che si rende conto che dovrà inesorabilmente crescere. E se non ve lo ricordate o vi pesa il sedere ad andarvelo a rileggere, in sintesi, mi volevo fare i capelli di un colore strano, perché si è ggiovani findagiovani  solo una volta. E poi ho sempre sognato di essere come Clementine di Eternal Sunshine of The spothless Mind, con quella nuvola di capelli azzurri. E poi anche Buzz Feed con le sue liste.

Quindi, long story short, ho le punte dei capelli blu elettrico, che schiarendosi diventeranno verdi. E si, lo so che non si tratta dell'intera testa, quindi bell'atto di follia. Lo so. ma bisogna scendere a compromessi. Era l'ultima opportunità, adesso o mai più, appena tornerò in italia a portata di ciabatta materna verranno tagliati. O se riesco a tirare almeno fino alla laurea. Poi, come negli anni '70, mi taglierò i capelli e cercherò un lavoro serio. 
Fino ad allora ho i capelli parzialmente blu. 
Ho 23 anni.
Non so cosa voglio dalla mia vita, ma per i prossimi tre mesi va bene così.

Vostra sciagattante e con un po' di blue,

Platypus

venerdì 27 marzo 2015

Spring break - 4.Philly and back

E giovedì, Philadelphia, la città dell’amore fraterno. Appena arrivata, il tempo di lasciare le valigie in albergo e via all’esplorazione! Il centro della città non è grande, è tutto nel raggio di massimo tre quarti d’ora di camminata a passo di marcia. Prima di esplorare, però, era necessario riempire lo stomaco. Ho pranzato in un diner all’interno del Reading Market, con una classica Philly Cheesesteak. Anche in questo caso sentivo il colesterolo salire, ma ne è valsa veramente la pena.  Nel pomeriggio ho girato l’Indipendence Park, un parco federale dove sono concentrati tutti i posti di importanza per la guerra d’indipendenza. Sono andata a vedere dove abbiamo perso le colonie, con una grande tristezza nel cuore (queen Betty in my heart). Tra le altre cose, ero l’unica persona adulta senza bambini, oddio, oltre a me c’erano magari anche un paio di pedofili. A parte questo e le guide vestite come i ranger dell’orso Yoghi, ho notato che potuto fare altre annotazioni sul modo degli americani di vivere la storia. Sempre per il fatto che ne hanno relativamente poca, sono fissati con i simboli, con gli oggetti, con l’aneddotica spicciola. E quindi viva la Liberty Bell, viva la storia di Betsie Ross, anche se si tratta di una truffa a scopo di lucro, ma lasciamo perdere. Hanno anche un intero museo dedicato alla loro Costutizione, molto bello, molto interattivo, molto MMurican, con un patriottismo quasi da caricatura. Se la sentono caldissima. Ho passato il resto del pomeriggio a vagare per il quartiere vicino al mio albergo, pieno di gallerie d’arte, negozi di vestiti hipster e negozi di libri usati. In uno di questi mi sono rintanata per riposare le gambette stanche, the Book Trader. Si tratta del genere di negozio di libri che risponde proprio all’idea di libreria: scaffali alti fino al soffitto, cunicoli di libri e ogni tanto piccole oasi per leggere. Il genere di libreria che mi aprirei negli anni della pensione se non dovessi essere sufficientemente in salute per viaggiare. Al rientro in albero, in ascensore vengo approcciata da questo sessantenne, che mi invita ad andare al casinò con lui. Tra le varie possibilità che mi si presentano davanti, opto per buttarla in caciara: sorrido e declino graziosamente, adducendo come causa le forti nausee dovute alla gravidanza. Sono stata lasciata in pace.
Il giorno dopo, Philadelphia Museum of Art, con la scalinata di Rocky. Inutile dire che per fare la splendida ho provato a farla di corsa con Eye of the Tiger in cuffia. In cima, invece di sollevare i pugni seguita da bambini, ho sputato il polmone sinistro, lo stomaco e la mia lingua era srotolanta fino a raggiungere la base della scalinata. Nel museo mi sono incantanta, ovviamente, davanti ai Girasoli. Tappa successiva: Franklin Institute. Fighissimo e bellissimo. Molto orientato e rivolto ai bambini, Carmine ci si sarebbe perso per ore. Come del resto ho fatto io, esplorando il cuore gigante, facendo gli esperimenti nella sezione del cervello. La parte più misteriosa è stata lo spettacolo al planetario. Misteriosa perché sono entrata, si sono spente le luci e mi sono svegliata 20 minuti dopo, a spettacolo finito, con il bambino seduto accanto a me che chiedeva alla madre se fossi morta. Sempre camminando, poi, passando per la statua Love, sono arrivata nella zona sud della città, per visitare i Philadelphia’s Magic Garden. La zone sud della città è stata letteralmente colonizzata dagli artisti negli anni ’60, dando una svolta alla vita artistica della città. I magic Garden sono una casa rilevata da Isaiah Zagar, artista, che l’ha resa un’opera d’arte. Decorata con mosaici tridimensionali ricavati da oggetti di risulta, nel cortile ha creato un labirinto multipiano, bellissimo e affascinante, disordinato eppure con un disegno ben preciso.
Paradossalmente Philadelphia mi è piaciuta più di New York, mi è sembrata un po’ più vivibile, un po’ più  misura d’uomo. Questo spring break mi ha dato anche la conferma che mi piace abbastanza viaggiare da sola, con i miei tempi, soffermandomi sulle cose che mi interessano e bypassandone completamente altre.  Camminare con una stordita libertà sapendo di essere padrona del mio tempo, di poter decidere di cenare o saltare il pasto perché sono troppo presa dal vicinato e dai paesaggi. Libera.

Certo, la libertà e il viaggiare da soli non è la perfezione. Tipo che sabato era San Patrizio e io furbona avevo una maglietta verde. No, non avrei dovuto, le uniche persone in verde eran le persone che facevano la bar crawling e che già alle 11.30 erano indecorosamente ubriache. Mi sono beccata un sacco di occhiatacce, anche se ero perfettamente sobria.

E poi di nuovo attraverso i territori Hamish, di nuovo al college. Con la tesi che mi alita sul collo.

Vostra e sciagattante,
Platypus

lunedì 23 marzo 2015

Spring Break - 3. Di cucina e pellegrinaggi e chi ce l'ha più lungo (l'albero genealogico)

Il giorno dopo era il D-day: avrei cucinato per la famiglia di E. Il mio piano prevedeva di andare in città al mattino, prendere il traghetto per Staten Island, vedere da lontano la statua della Libertà, tornare a Manhattan, visitare il Museum of Sex, andare da Eataly a fare la spesa, tornare in New Jersey e mettermi ai fornelli.
La statua della libertà posso capire che abbia un grande valore per gli Americani. Chiunque scenda per visitarla e poi andare a Ellis Island lo fa perché vuole cercare il nome dei suoi antenati nei registri. Sarà perché hanno relativamente poca storia pubblica, ma gli americani sono fissati con la storia privata. Se ci si pensa, dalla guerra di secessione in poi, tutte le guerra, la storia bellica è ESTERNA. L’ultimo grande pezzo di storia interna è stato il movimento per i diritti civili negli anni ’60-’70, l’attentato alle torri nel 2001. Il resto non è storia, ma cronaca. Dove trovare la propria storia, allora? Nella propria genealogia. Perché se io so che mia nonna è arrivata qui con una valigia di cartone e adesso io abito in una casa con piscina, la mia storia è quella dell’american dream. La gente ci tiene tantissimo alla propria ascendenza: siamo prima di tutto americani, ma giochiamo a chi riesce ad andare più indietro, chi ha l’albero genealogico americano più lungo. Prima del 900? Ok, lungo, ma vuoi mettere con i miei antenati che sono arrivati con i Puritani?  Da più tempo si è in America, più è facile individuare la propria posizione sociale. A confronto, per il fatto che io riesco a risalire solo fino ai trisnonni (e solo dal ramo paterno), a confronto io sono figlia di nessuno.
Il musem of sex è stato veramente divertente, perché, oltre a disegni di Keith Hearing e di Picasso, statue falliormi, vagine e retrospettiva su Linda Lovelace, lascia anche spazio a un’interessante panoramica sul sesso animale. Madre, eccoti la brutta notizia: le natarelle sono una delle poche specie a praticare lo stupro e la necrofilia, come i pinguini e gli scimpanzé nelle guerre tra i vari gruppi. Siamo così sicuri di voler tenere tutte quelle natarelle in bagno? Nessuno è al sicuro. Il museo è un posto che non vuole scandalizzare, ma solo mettere nella giusta prospettiva il sesso e il suo significato: una cosa naturale nelle sue declinazioni, che non dovrebbe essere un taboo.
E poi Eataly. Caotica, affollata, popolata da americani in sindrome da Stendhal che arraffano e frugano formaggi, pasta, olio e salsa, che fingono di essere intenditori di vino e olio e compiono, senza volerlo, crimini seri. Gli italiani nel mezzo li riconosci subito: sono quelli che vanno a colpo sicuro, sbuffano perché c’è la salsa mutti e non la cirio, e chiedere tanti per uno stuzzetto di formaggio è un crimine.
Il pomeriggio, la concorrente di Masterchef che è in me, era pronta per l’esterna con la sua brigata. Il menù prevedeva focaccia, pasta al forno, melanzane grigliate con glassa di aceto balsamico e scaglie di parmigiano, aperitiva con perorino di fossa e glassa di aceto balsamico. La focaccia non è cresciuta come avrebbe dovuto, il sugo per la pasta al forno non ha quagliato, l’unica cosa uscita bene sono state le melanzane, che erano a prova di idiota, diciamocelo. Eppure, eppure hanno mangiato e apprezzato tutto tantissimo (anche se me ne sono accorta che aggiungevano discretamente il sale alla pasta al forno). Grandissima meraviglia hanno destato le polpette, piccole e perfette (anni di scuola di nonna Pia mica a caso) e l’utilizzo della glassa di aceto balsamico ha causato amore infinito per i formaggi. Penso sia diventato un elemento indispensabile per loro. Cucinando mi sono ovviamente scottata e tagliuzzata variamente, quindi ho utilizzato i rimedi della nonna, olio sulle bruciature (fa passare il gonfiore e non fa venire la vescica come l’acqua fredda) e vino sui tagli che sanguinavano copiosamente (questo non so perché, però nonna p. lo faceva sempre e smetteva di sanguinare). Quando delle bruciature non è rimasto neanche un segnetto, grande meraviglia tra gli americani.
Il giorno dopo altra giornata campale: treno alle 7, e tutta la giornata a camminare su e giù per Manhattan.  Ho iniziato con il 9/11 memorial. Ne avevo parlato con E. e C. il giorno prima. Non possiamo capire veramente a portata dell’evento. Dove abitano loro tutte le famiglie hanno almeno un genitore che fa il pendolare per New York. Quel giorno tutto il New Jersey si è dovuto fermare. I bambini non sono stati fatti uscire dalle scuole, perché non si sapeva se ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarli a casa. Parecchie persone sono sopravvissute alle torri. Mi hanno raccontato di storie di civiltà all’interno degli edifici, di come un loro vicino si sia salvato perché, nonostante l’’incendio, avesse preso l’ascensore. Chi aveva deciso di scendere per le scale non aveva fatto in tempo.
Dove prima c’erano le torri adesso ci sono due grandi fontane monumentali, con incisi i nomi delle vittime. Le vasche sono come una ziqqurat invertita, sempre più profonde, fino a quando al centro non c’è un buco nero profondo e imperscrutabile. Ogni tanto, incastrata in qualche nome c’è un fiore. Uno dei posti più tristi che io abbia mai visto.

Dopo le torri, la seconda tappa è stata Washington Square, immortalata in August Rush e in Harry ti presento Sally. È nella zona dell’università, ci sono un sacco di artisti di strada, c’èera un tip0o che suonava il pianoforte a coda, non scherzo. Un posto che magari non è così importante, ma dal punto di vista del pellegrinaggio filmico è stato NECESSARIO andare lì e sentirmi Let’s call the whole thing off  di Luis Armstrong. Da lì di nuovo sulla metro e Central Park, da dove sono andata al Metropolitan, dove ho ovviamente inseguito Van Gogh. Fun fact: in questi musei, divisi per sezioni, c’è sempre la sezione Arte Americana e di solito si tratta di  ritratti (brutti) e di mobili e argenteria. Tutto il resto è roba europea, asiatica e poi il tempio di Duran, che l’Egitto ha regalato angli stati uniti negli anni ’60. Della serie, se non avete idee per il mio compleanno, cof cof… In alternativa mi sono convinta che un mio ritratto in stile Klimt farebbe un figurone in salotto. A sono solo idee, eh.
Il Gugghenheim museum, invece, si è rivelato una grande delusione. Bellissima la struttura in sé, ma poca arte e molto concettuale, troppo persino per me. E poi sono partita all’esplorazione di Central Park, anche qui guidata da film e serie tv, per poi arrivare agli Strawberry Field, al memorial per John Lennon. A questo punto si era fatto tardi e ho salutato New York.

A casa di E., sua madre mi ha regalato degli orecchini fatti da lei e mi ha raccontato la sua giornata. All’asilo era il giorno dell’esercitazione per il Code Blue. Il code Blue è l’evenineza di un’irruzione di persona armata nella scuola. Gli Americani sono strani. Il sesto emendamento, quello che consente di girare armati, sarebbe un presupposto di libertà, ma se obbliga bambini di tre anni a fare l’esercitazione chiudendosi nell’armadio e rimanendo in silenzio, forse qualcosa la dovreste rivedere, eh. Ma niente di personale. 
Il giorno dopo treno. Philly, here I come!

Vostra e sciagattante, 

Platypus

venerdì 20 marzo 2015

Spring break - 2. The big apple

 Perdersi a New York pare sia impossibile, perché le strade sono tutto sommato numeri. Peccato che io con i numeri sia una ciofeca, ma per fortuna siamo nel mondo moderno, quindi, invece di impazzire con una cartina che non sapevo ripiegare, potevo discretamente controllare sul cellulare, fingendo di stare guardando dei  messaggi. New York, la grande mela. Devo specificare che nei miei 4 giorni di pendolarismo non mi sono mossa da Manhattan, e ho quindi il rimpianto di non aver visto Brooklyn. Ma si porrà rimedio a questo, la vita è lunga e la mia wanderlust è tanta. Prima tappa è stato l’Empire State Building. Sfidando le mie vertigini ho preso il biglietto valido fino al 102esimo piano. Ne è valsa la pena, se non altro per guardare lo skyline dall’alo. Troppo in alto, perché a parte lo skyline non è che si potesse distinguere molto. Mi ha affascinato però vedere le cisterne dell’acqua sui tetti, i palazzi e spingere lo sguardo fino all’orizzonte. Da sola, io e la mia audio guida, sul tetto del mondo.
Seconda tappa, Times Square. Una delusione. Me l’aspettavo più viva, più allegra, più luminosa, invece è un trappolone per turisti senza un granché di particolare da fare o da vedere. Ci passi, fai la foto, fai video cantando Nuova York di Scamarcio, rischi il TSO e poi basta. Ma andava vista, perché tutto sommato le mie passeggiat3e avevano come trama ricorrente il passare nei posti che ho visto sul grande schermo o di cui ho letto. Motivo per cui sono passata per Bryan Park e davanti alla biblioteca di New York, rivivendo nel mio piccolo le  avventure di Sex & the City. Grande star della giornata è stato il Moma.  Con l’audioguida e la giusta predisposizione mentale io l’ho trovato meraviglioso. A parte una mostra temporanea di Bjork, ma io penso che Bjork sia inquietante, quindi non faccio decisamente testo. Ma la sezione dell’arte del 19-20 esimo secolo, quella è meravigliosa. Posto che gli americani adorano i futuristi, sale e sale di futuristi, che neanche in Italia gli diamo tanta importanza, ma poi gli impressionisti, una stanza intera dedicata alle ninfee, Klimt, mai abbastanza Klimt. E poi Van Gogh. Signori miei, Notte Stellata è il dipinto più triste, vibrante e vivo che io abbia mai visto. Ora, sarà che il mio rapporto con Van Gogh è definitivamente influenzato da Doctor Who, ma il caro Vincent si conferma come uno dei pittori che più profondamente riesce a toccare i miei sentimenti. Klimt mi piace, ma a livello puramente estetico, stessa cosa per gli impressionisti, ma Van Gogh, Van Gogh è anima. 
Sono rimasta nel Moma tantissimo tempo, quindi il tempo di tornare in stazione e di prendere il treno. Peccato che sulla strada del ritorno io mi sia letteralmente persa in un bicchiere d’acqua e sia finita a little korea. Alla fine sono riuscita a salire sul treno, quindi nema problema.

A casa mi aspettava la serata pizza (Perché la pizza del NewJersey la devi provare). A spezzare il pane con noi, c’era la famiglia del fratello di M. Essendo il numero di uomini presente in stanza superiore a due, il discorso è stato monopolizzato dalla politica. Ed essendoci una rappresentante di un Paese straniero nella stanza, perché non dimenticare le disgrazie interne e passare a parlare della politica italiana? E all’estero la politica italiana, a quanto pare, è sinonimo di Berlusconi. Mi sono trovata a dover spiegare che no, non è il nostro attuale premier, a doverne raccontare la storia politica e giudiziaria, parlando anche di Belen, Ruby, Lele Mora e Emilio Fede, della Mediaset e della rai, cercando di salvare il salvabile del nostro Paese. Per fortuna il padre di E. è repubblicano, quindi poi lui e C. si sono scannati su Obama, lei è democratica. Io sono rimasta a riflettere in silenzio sulla nostra immagine al’estero così misera. E non ho dovuto neanche parlare di Grillo o Salvini per fare questa figuraccia di merda. 
 Il giorno dopo Rockfeller Center, dove c’è la pista di pattinaggio, tanti negozi, tra cui quello spettacolare della lego. L’interno del palazzo principale, da dove si sale al punto di osservazione Top of the Rock, sembra il Ministero della magia di Harry Potter, tutto in marmi scuri, luce soffusa e al posto dei caminetti della Metropolvere, i tornelli per accedere agli ascensori che portano agli uffici.
La terrazza panoramica è molto più soddisfacente della vista dall’Empire. Il fatto che si trovi in una posizione più centrale e che sia un cecinino più bassa, consente di avere una visuale spettacolare, con uno skyline più definito e una vista mozzafiato su Central Park. Qui E. mi ha fatto notare Broadway, l’unica strada che della griglia se ne frega. In origine, quando la città era ancora olandese, Broadway altro non era che un sentiero per vacche, che ci si è limitati ad asfaltare. Altro che la strada dell’estro teatrale, vacche, vacche ovunque.

Vostra e sciagattante,

Platypus

martedì 17 marzo 2015

Spring Break -1. The garden State

Il mio spring break doveva iniziare giovedì 5 marzo. Peccato che nello stesso giorno sia iniziata anche quella che dovrebbe essere stata l’ultima grande tempesta invernale nel nord est degli Stati Uniti. Non so dirvi quanti centimetri di neve ci fossero, o quanti inches, ma quello che vi posso assicurare è che se non mi hanno amputato il naso per ipotermia a questo giro, non succederà più. Ora, a causa di quel lieve suo candor nevedemmerda, giovedì hanno dovuto annullare il servizio di navette del college. Dovevo essere su quella delle 12.00. Mi avvisano che è annullata. Chiamo l’Amtrak (la Trenitalia italiana) per cambiare il biglietto. C’è una simpaticissima vocina robotica, Julie, che mi chiede di pronunciare il mio codice di prenotazione. Piccolo simpatico particolare: la stronzetta meccanica non capiva il mio accento. E quindi mi deviava all’operatore, con 15-20 minuti di attesa e pubblicità. Ora, dato che questo scherzetto dell’annullare la navetta lo hanno fatto un paio di volte e poi l’Amtrak ha cancellato un treno, avrò urlato la mia prenotazione con Julie 4 volte. Prima ancora di salire su un treno dell’Amtrak, ne avevo già le scatole piene. Anche perché il siparietto ha molto divertito i miei compagni di casa, che ridevano dei mie tentativi. Offrirsi di leggere al posto mio no, eh? No.
Venerdì aveva smesso di nevicare, tutto era pronto. Navetta dell’università alle 9, alle 10 eravamo in questa cittadina sperduta. Ho visto solo la zona della stazione, ma una cosa la posso dire con certezza: a confronto di quella zona, Kaliningrad è un simpatico e ridente luogo di villeggiatura. E nella stazione, poi, la meraviglia: le stazioni funzionano in maniera diversa rispetto alle nostre. Oltre al limite del bagaglio (quindi io non potrei viaggiare neanche in treno in America), si può accedere al binario solo dopo aver fatto controllare il biglietto. Niente addii strappalacrime sotto il finestrino. Le linee nazionali funzionano come aeroporti, con tanto di perquisizioni random. Solo non ci sono i metal detector, quindi un minimo si sono regolati.
Nelle due ore di buco in cui abbiamo aspettato il treno, io e E. ci siamo intrattenute con altre due ragazze, che avrebbero viaggiato con noi. Nell’ambito delle conversazioni casuali del più e del meno, ecco che Melissa sgancia la bomba: “Comunque il college non può dare le case alle sororities”- Al mio sguardo interrogativo, risponde:” Praticamente c’è una legge in Pennsylvania, in una casa di associazione o finanziata da privati come l’università, non possono viver più di dieci donne, se no è classificato come un bordello ed è illegale”.
Non vi nasconderò che ho passato tutto il viaggio a sghignazzare pensando a questa cosa e a come l’assurdità degli americani è un qualcosa di raro e antropologicamente interessante. Col treno siamo passati nelle vicinanze di una zona con un’alta densità abitativa di amish: si vedevano i loro carri e le loro case si riconoscevano dai panni stesi ad asciugare all’aperto, perché no elettricità, no asciugatrice e vedi che goduria metterti i mutandoni di lana dopo che sono stati appesi a meno 5 tutto il giorno.

Siamo arrivate a New York, dove alla stazione ci siamo incontrati con il padre di E., e siamo saliti sul treno per il New Jersey.
Appena arrivate, dato che non avevamo pranzato, io e E. abbiamo fatto “merenda”, ovvero fatto uno spuntino con cheddar, salame e cracker e i genitori hanno aperto una bottiglia di vino. Neanche il tempo di declinare graziosamente, che mi sono trovata in mano un calice di pinot grigio e a parlare del più e del meno e di quali vini fosse meglio bere sulla carne, di quali sul pesce, perché essendo italiana, a quanto pare, detengo il sapere assoluto su queste faccende.  Ma ho tenuto botta abbastanza bene, grazie agli insegnamenti di Padre.
 A cena mi hanno portato in un ristorante italiano, sul quale ci tenevano io dessi un parere, Il Mondo Vecchio. Molto buono, veramente italiano. Fun Fact: prima di uscire, vedo il padre di E. che mette in una borsa due bottiglie di vino. Sono perplessa e si vede. M. mi spiega:” In New Jersey c’è un numero limitato di licenze per alcolici dei locali. Il numero è determinato dalla popolazione, che però è cresciuta, quindi alcuni locali non possono ottenere la licenza. Però ci si può portare l’alcool da casa”. Questi pazzi, pazzi americani.
 Il mattino dopomi hanno piazzato davanti il piatto con i pancake ed è iniziata l’ordalia. Dovete sapere che il mio approccio al cibo americano è stato profondamente criticato: tutto quello che io avevo mangiato era Pennsylvanian food e i quaccheri, evidentemente, ritengono che il mangiare in maniera decente sia un lusso eccessivo. Da settimane ero bombardata da consigli su cosa dovessi mangiare nel posto dove il cibo era il migliore del mondo: il New Jersey (sic al quadrato). Ho addirittura scoperto che E. e G., un altro mio studente, si erano messi d’accordo e avevano stilato una lista di cose da farmi mangiare assolutamente. First stop, i pancake, appunto. Che mi sono piaciuti, ma niente di eccezionale.  E poi il mall.
Enorme, tentacolare, con marche anche prestigiose, ma troppo grande per i miei gusti. C’era anche la sezione del vestiti da prom, il ballo scolastico e dovete essere tutti orgogliosi di me, perché ho resistito alla tentazione di provarmene uno o più, ma soprattutto di comprarne. Un giro di applausi per Platypus? Ecco, bravi. Abbiamo anche pranzato al mall, dove ci hanno raggiunto la zia e la nonna. La nonna di E. ha 76 anni e guida ancora, mette i jeans e aveva un paio di scarpe da ginnastica della Nike. Il vederla mi ha fatto riflettere su come sia diverso l’invecchiare per le persone, a seconda della vita che si è vissuta. La nonna di Emma ha avuto tutto sommato una vita facile, senza grandi problemi. Non è andata a fare la bracciante nei campi dall’età di 5 anni, durante la guerra non è scappata dai bombardamenti nei campi, non ha fatto la maestra in un posto dimenticato da Dio. Non ha cresciuto due figlie da sola, non ha subito un grave incidente d’auto. Non ha vissuto quello che i nonni hanno vissuto in Italia. Tutta la vita che ci si porta alle spalle la si paga nella vecchiaia. La conferma ulteriore la ho avuta quando abbiamo fatto il ponte per la batteria alla macchina di E. e l nonna, tranquilla e rilassata ha maneggiato i cavi come un’elettrauta esperta.
La sera abbiamo cenato a casa, hanno cucinato i genitori, mentre io e E. davamo una mano con i compiti di bassa manovalanza, quali maneggiare coltellacci e affettare aglio e cipolla. Il task era reso più difficile dal bilanciare i margaritas che il padre ci aveva preparato. Se non ho perso un polpastrello in quell’occasione, ecco, non credo ne perderò più. Un’altra cosa interessante: volete mangiare senza sensi di colpa? Non guardate come cucinano. Burro, burro ovunque. Potevo sentire il livello di colesterolo che si alzava visibilmente, anche solo guardando. Per friggere? Burro nella padella. Per il garlic bread (che cucinerò a nonno peppino)? Burro fuso. Burro e uova, burro e uova ovunque. Per carità, tutto buonissimo, ma per favore no. Le coronarie, pensate alle coronarie. Dopo cena sono passati a trovarci una coppia di vicini. E qui le cose si fanno interessanti.
Scopo del vedersi, discutere di una riunione del vicinato che avrebbero fatto il giovedì successivo, perché un nuovo vicino vuole fare degli ampliamenti alla sua casa, lasciando poco spazio tra una casa e l’altra e costruendo una mansion. Diatribe da vicinato, ma ho trovato antropologicamente interessante i termini con cui si parlava del vicino: “He’s so new money, an italian”. Ora, ,l’ultima volta che ho sentito la definizione new money è stata nel film Titanic. E la definizione di italian mi ha colpita nel vivo. Questo non ha aiutato nel mio giudizio dei vicini, dato che sono stati loro a dispensare questa simpatica definizione. Poi si sono resi conto che ero nella stanza e che continuavo a sorridere come la Gioconda. “Non è veramente italiano, credo sia stato adottato da italiani nel New Jersey”. Embè, questo cambia tutto, stronzo. Per recuperare il vicino si è messo a incensare l’Italia, ma soprattutto la Toscana, aaah, che bella la Toscana, così civile, così bella, ci sei mai stata? Ma di dove sei, della Puglia, ma dov’è la Puglia, che avete in puglia, quasi quasi ci passiamo per prendere il traghetto e andare in Grecia. Tanto non c’è molto da vedere, vero? Il tutto condito da intercalari tipo “diccelo se parliamo troppo veloce e non riesci a seguirci”. A questo affronto non ho dovuto rispondere, perché la madre di E. è entrata a gamba tesa dicendo che parlo un inglese anche migliore del loro.  Per il resto della serata mi sono limitata a sorridere, annuire e bestemmiare dentro. E. si sarà resa conto del mio disagio, perché dopo mi ha parlato dei vicini, dicendo di come il vicinato sia una cosa importante, etc. etc., ma penso che il danno ormai fosse fatto. L’ignoranza è una brutta bestia. 

Belle bestiole erano invece il cane, di 12 anni, vecchia, grassa e coccolosa e la gatta, scontrosa e, pazza. Però le piacevo. La prima sera abbiamo avuto uno gara a chi distoglieva lo sguardo per prima. La gatta ha vinto, ma di misura, eh. Alla fine della mia permanenza eravamo abbastanza in confidenza: le ultime due sere mi è venuta a fare compagnia in camera prima di andare a dormire, si è infilata nella mia valigia traendone infinito gusto, mi ha fatto le fusa e voleva dormire con me. La gatta è stata messa alla porta, perché tutto quello che volete, ma sei pur sempre una felina psicopatica che il primo giorno a provato a graffiarmi il naso mentre scendevo per le scale. Vedete un po’ come è finita per Oloferne. 

E questa è stata la mia vita in NJ.

Platypus

sabato 14 marzo 2015

Cartolina

Qui continua a nevicare ogni mattina. E ogni tanto la sera. E ogni tanto nevica col sole. E ghiaccia. Poi si scioglie. E poi ricomincia.
Conto ogni aspettativa, mi sto abituando a questo clima. Comincio a trovarlo addirittura poetico, specialmente la sera, quando rientro dalla palestra.
Di solito è già buio, e magari nevica. E nel campus non gira nessuno, ci sono solo io e la neve, che scende bianca e forma questi cuscini morbidi sulle aiuole, qualche singolo fiocco si deposita sulle ciglia, rimane incastrato nella pelliccia del giubbotto. E sono momenti di beatitudine, neanche dalle case delle confraternite arriva rumore, ogni tanto si sente solo il frusciare di uno scoiattolo tra i rami, o la sirena del passaggio a livello. Nevica, cammino nella neve, ed è bellissimo stare sotto un cielo nero quando nevica, perché si vedono tutti questi puntini bianchi colpiti dalla luce dei lampioni, questi puntini che scendono e danzano e finiscono sulla punta del mio naso.
Oppure nel primo pomeriggio. Ci sono dei momenti, vedete, in cui il campus è pressoché deserto, perché tutti gli studenti sono a lezione. E l’altro pomeriggio era uno di questi momenti. C’era il sole, non nevicava, faceva abbastanza caldo da  non indossare i guanti e dal poter evitare il cappello. Ero in una parte periferica del campus e ogni tanto nel bianco della neve affioravano chiazze d’erba, dove i pettirossi cinguettavano allegramente. In sottofondo lo scrosciare della neve che si scioglieva, che sembrava una canzoncina allegra sulla quale si poteva canterellare e provare ad accennare a ballare, perché tutto urlava che la primavera non può tardare.
Che poi il giorno dopo abbia nevicato è irrilevante ai fini della storia.

martedì 10 marzo 2015

Mean Platypus

Disclaimer: Questi post sono stati scritti in anticipo e programmati, perché mentre siete lì a leggerli io sono a New York per lo spring break. E dove stiamo andando non abbiamo bisogno dei pc. 

Qui mi sono data alla palestra. Sto facendo yoga. E non solo. Seguo anche la classe di kickboxing e flirto occasionalmente con pilates.
Pilates è sostanzialmente un nome figo per gli esercizi che la professoressa ci faceva fare durante educazione fisica al liceo. Esercizi che accompagnava con frasi del tipo “Quando avrete 50 anni i vostri mariti mi ringrazieranno per il vostro sedere tonico. E anche ai vostri amanti di 10 anni più giovani non avranno nulla da ridire”. Potete immaginare lo stress post traumatico derivato dall’esperienza.
Kickboxing è stancantissimo, ma divertentissimo. L’unico problema è la mia impossibilità di tenere il tempo e memorizzare anche la coreografia più semplice, motivo per il quale sono di solito relegata nell’angolo della palestra dove posso fare meno danni possibili a cose e/o persone. Sembro lo squalo di sinistra del Super Bowl, sono sempre convinta di stare per sputare un polmone dopo mezz’ora, ma mi sento veramente empowered.
Yoga è sostanzialmente noioso, in una stanza piena di gente scalza e con i piedi puzzolenti, imbarazzante come poche cose nella vita, ma ha il praticissimo vantaggio di sciogliermi tutti i dolori alla schiena e al collo, derivati dal freddo polare e dallo studiare nelle più varie (e scorrette) posizioni.Si tratta sostanzialmente di posizioni sessuali senza il divertimento. Altri aspetti positivi del frequentare questo corso:
·         La musica di sottofondo, un misto tra Norah Jones e canzoni preferite da Sorella.
·         Sono molto più flessibile di quanto potessi immaginare
·         La compagnia.
A yoga vado infatti con delle amiche e abbiamo inaugurato la formula palestra e poi cena, che fa tanto Sex&theCity e porta fuori la Miranda che c’è in me. Questa simpatica occorrenza ha spesso generato delle scene molto comiche e che confermano la mia impressione di trovarmi in un teen movie americano. Per la precisione Mean Girls.

A cena I. ha chiesto a un suo amico della Repubblica Dominicana perché non fosse ispanico. Mi sono dovuta trattenere dal dirle “I, non puoi semplicemente chiedere alla gente perché non è ispanica!”. Fatemi un applauso, anche a questo giro abbiamo scansato la denuncia.

Tutto è molto fetch. 

Vostra e sciagattante,

Platypus

mercoledì 4 marzo 2015

Grebiulino rosa e boxer is the new nu jeanz e na magliett

L'altro giorno ho finalmente cucinato la focaccia per i miei studenti. Mentre  impastavo e cucinavo, la mia esistenza è stata finalmente riconosciuta dal mio vicino di stanza. Fun fact: il ragazzo e il suo compagno di stanza sono gli unici che con il tema della casa che mi ospita, la guerra civile, non c’entrano nulla, sono stati messi qui solo perché avevano bisogno di un posto dove dormire. Sono entrambi qui con una borsa di studio per giocare a lacrosse (di cui so solo che è uno sport brutale nel quale si usano mazze). Mentre nel mio grembiule rosa disponevo pomodorini sulla focaccia (sulla quale ho dimenticato di mettere il sale, ma tanto questi la focaccia non l'hanno mai mangiata e non se ne sono accorti), il ragazzo stava andando in bagno, direttamente di fronte al tavolo dove lavoravo. Fun fact: il ragazzo ha l’abitudine di andare a fare la doccia e di girare per casa solo con i boxer, sfoggiando un corpo abbastanza bronzo riacesco. Immaginatevi la scena: io nel mio grembiulino rosa che taglio pomodorini, questo tipo che passa, e in boxer, assolutamente naturale, mi guarda, si ferma e mi chiede:
-What are you baking? (che cucini?)
Avendo fatto il militare a Cuneo ed essendo quindi una donna di mondo, non mi sono scomposta e gli ho risposto:
-Focaccia.
-Whaaat?
-A kind of italian bread for my students.
- you’re a professor? You live here? What do you teach? {N.B. il pensiero che potessi essere una professoressa non l’ha fatto desistere dal rimanere lì impalato vestito solo dei suoi boxer}
-No, I’m not a professor. I’m a cultural liason in the Italian classes.
-So you can speak Italian!
-…
-…
- I’m Italian, actually.
-Ah.
-Yeah.
Calcoliamo che è un mese che giro per casa e ci salutiamo e che lui mi sente bestemmiare in italiano durante yoga. Il ragazzo non è propriamente il più sveglio della cucciolata o, come dicono qui in America, the sharpest crayon in the box (la matita più appuntita dell’astuccio). Questa versione del teatro dell’assurdo, ovvero grembiulino rosa VS boxer è continuata.
-I don’t speak Italian.
-…
-My mother does. She studied there. Ok, then, bye.
-Bye.
Blasè come poche ho ripreso a disporre I pomodorini, chiedendomi per l’ennesima volta se io non sia la protagonista del Platypus’s Show, come il caro Truman. Il ragazzo è poi uscito dal bagno e, sempre gloriosamente semi ignudo mi ha garrulamente urlato, “Arrivedorci”. Sono rimasta alquanto perplessa da questa interazione sociale.Anche perché non mi spiego
1.      In che modo in 10 minuti in bagno abbia scoperto come si dice good bye in italiano
2.      Se aveva un cellulare per scoprire l’arcano, dove lo tenesse.
Immagino ci siano misteri di cui è meglio non conoscere la soluzione.
La focaccia però è stata apprezzatissima.

Vostra e sciagattante mentre fuori nevica (ancora)
Platypus
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