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domenica 30 marzo 2014

Tutta colpa dei calzini

Proust mangiava dolcetti e si perdeva nel flusso dei suoi ricordi. A me è capitato mettendo a posto il bucato, nella fattispecie appaiando i calzini. Il che dovrebbe porre delle significative domande su come la trivialità della mia vita non potrà mai produrre capolavori osannati dalla critica mondiale, ma me ne farò una ragione.

Dicevo, stavo appaiando i calzini. Me ne è capitato in mano un paio, di quelli lunghi e alti, a righe arancioni, verdi e neri. Anche più decenti di certi orrori che abitano il mio cassetto della biancheria. Mentre li piegavo, una considerazione mi è piombata addosso: quel paio di calzettoni mi accompagna dalla seconda media. Da quando avevo 12 anni. E c'è da dire che sono ancora in ottime condizioni, un altro paio di stagioni invernali se le possono fare tranquillamente. Mi sono seduta sul letto, circondata da calzini voltanti, slip e canottiere che da giorni bramavano il ritorno al loro cassetto. Lì seduta, i calzini in mano, mi sono anche ricordata del momento in cui sono entrati nella mia vita. 

Nel 2004 in Puglia, nel mio paesone, le ragazzine di tredici anni cercavano di far collimare le vestigia della fase da scolaretta di Britney con i sussulti del nuovo millennio, ovviamente senza esserne minimamente consapevoli. Quando si usciva la domenica mattina minigonna e camicetta erano d'obbligo. Alla minigonna andavano religiosamente abbinati scaldamuscoli o calzettoni colorati. Chi aveva la madre ggiovane esponeva la pancia scoperta, incurante dei rotolini di ciccia ancora infantile che facevano capolino.


Inutile dire che Madre non approvava questo look. Col senno di poi non posso fare che ringraziarla. Innumerevoli volte non riuscivo neanche a uscire dalla mia stanza senza che la solerte genitrice mi rispedisse a mettermi qualcosa addosso, in modo da non sembrare una Lolita uscita male. Il mio modo di vestire era oggetto di accanite liti, alla fine delle quali arrivavamo a mediare, a fare dei trattati. Penso che questi calzettoni con gli scaldamuscoli arancioni abbinati rientrassero in uno di questi armistizi.

Con i calzettoni ancora in mano (e il bucato attorno che chiedeva vendetta), mi sono chiesta dove fosse finita la dodicenne che ero e quando fossi arrivata io. Mi sono guardata allo specchio. Grazie al cielo c'è stato un miglioramento estetico.

Durante le medie, per rimandare il tragico momento della ceretta, Padre era riuscito a convincermi che non toccando i peli superflui mi sarebbero caduti da soli con lo sviluppo. Sfoggiavo allora fieramente un monosopracciglio di tutto rispetto con dei baffetti niente male. Per non parlare della ciccia ancora infantile. E i capelli. Fino ai tredici anni ho rifiutato di tagliarli, erano lunghissimi, ma me ne vergognavo. Troppo ricci, troppo ribelli. Li portavo sempre legati in una coda che non mi stava bene. Le medie, i miei anni ingrati per eccellenza.

E adesso i miei capelli li porto gonfi, ricci, che affermano la mia presenza e pazienza se ovunque io vada li dissemini. Lo faccio con orgoglio.

Quella dodicenne non c'è più (grazie al cielo). Sta tornando di moda la pancia scoperta e sospetto che nella moda i rigurgiti anni 90 non si fermeranno qui. Resta il fatto che questi calzini sono con me da dieci anni. In dieci anni non mi è cresciuto il piede e non sono diventata più alta. Ho imparato a non vergognarmi di ciò che mi rende unica. 

Oggi è il mio compleanno. Con questi maledetti calzini in mano, il bucato sparso sul letto, i capelli pazzi, mi guardo ancora allo specchio. E mi chiedo dove sarò tra dieci anni. Se riuscirò a mascherare la mia età. Che al momento è la mia massima preoccupazione. Roba che l'altra settimana mia Nonna mi chiama e mi chiede: "Ma tu devi fare 19 anni al compleanno, vero?". Io le ho dato ragione e le ho detto di diffondere il Verbo.

La sintesi è che non so dove sarò tra dieci anni (perché in realtà non so neanche dove io sia adesso), so dove ero a 12 anni (certamente non dall'estetista), la pancia scoperta non me la potevo permettere a 12 anni e neanche adesso, il bucato non è ancora nei cassetti  e c'è un paio di calzini  che mi segue da dieci anni, il che la dice lunga sul fatto che io debba rinnovare il mio parco intimo.

Vostra sciagattante, più vecchia di un anno e costernata

Platypus


lunedì 24 marzo 2014

Awkward.

Per essere strani serve talento naturale ma anche abnegazione. Si tratta di un esercizio costante, da questi talenti derivano grandi responsabilità.

Io, infatti, ho tipo passato la domenica sera a guardare e applicare tutorial su come fare turbanti con sciarpe e foulard. E a mandare foto ai miei amici e genitori, che a un certo mi hanno anche chiesto di smetterla, perché dovrebbe tendenzialmente esserci un limite a tutto. Ma i turbanti saranno la svolta della mia primavera estate 2014, perché se non ci si possono permettere i cappelli alla Ascott, bisogna comunque trovare una scappatoia. I miei amici sono già stati rassicurati, hanno il permesso di fingere di non conoscermi quando girerò con il mio turbantino hand made. 
Però a quanto pare sono stata fonte di grande ilarità, tanto più che mi hanno fatto notare che se continuo a chiedere loro di regalarmi un pony per il compleanno, con turbante e baffi finti avanzati da Carnevale, potrei fare il Re Magio universitario, che al posto di oro, incenso e mirra, porta taralli, focaccia e Peroni. Sostanzialmente hanno sintetizzato le mie aspirazioni di vita, quindi i turbanti, prima in forse, diventeranno parte integrante del mio modus vestendi. 



Gli unici a non ringraziarmi per questa forma di intrattenimento sono stati i miei genitori ("Marito, te l'avevo detto che quei frutti di mare crudi mangiati per sbaglio in gravidanza avrebbero avuto effetti") e i miei capelli che, coinvolti in tanto strofinio, hanno giustamente pensato che l'elettricità statica è cosa buona e giusta. Stamattina mi sono infatti trovata con un nido elettrico in cima al capo. Ad avere a disposizione della cipria bianca e degli ornamenti carini penso mi sarei dedicata alla creazione di un pouf alla Marie Antoinette.

Strano è bello, anche se non strettamente esteticamente parlando. 

In realtà ci sono dei momenti in cui essere awkward si rivela problematico. Sabato sera, per esempio, ero a Trastevere. Mentre stazionavo beata, vedo avvicinarsi una mia amica. Comincio a fare la persona inquietante, ovvero a chiamarla con quel "pssss" nel quale sono specialisti tutti i vari maniaci. Niente, non mi sente. Al suo passaggio, la prendo per un braccio e, beata innocenza, le dico:

-Bella ciao! Certo che puoi rispondere quando ti chiamo, cioè, mi stavo rimorchiando il tipo strano che camminava davanti a te!

-Ehm, ciao Platypus. Ti presento il mio amico Ciccio Cappuccio. il tipo strano.

Mentre sorridevo a tutti i denti e porgevo la mano destra, la mano sinistra era impegnata a cercare la simpatica vanga da borsetta per seppellirsi in caso di figure di questo calibro.

La morale della storia è solo questa:

















 Vostra e sciagattante,

Platypus

sabato 22 marzo 2014

Memoir familiari, 2: La susta

A volte la mia mente parte in loop. Si fissa sempre sugli stessi pensieri e non ne esco più. Non sempre sono pensieri allegri. L'unica cosa da fare in questi casi è spegnermi e riavviarmi, come un computer riottoso. A volte funziona, a volte no e allora i pensieri devono andarsene da soli, col tempo. 

Sono sempre stata una rimuginante. Anche da bambina. potevo passare ore seduta sul divano a rimuginare, con i capelli pazzi e le sopracciglia aggrottate. Mia Nonna, quella che ha sempre abitato con noi, passava e mi guardava e chiedeva:

-C' tein, la sust?, ovvero Che hai, la susta?

Quello della susta è un concetto tipicamente pugliese, come il priscio o la sconfidenza. La susta è una certo malessere interiore su cui una persona rimugina e rimugina e rimugina, si arrovella e non si esprime. 

Anche le maestre della scuola materna lo sapevano. Quando Nonna veniva a prendermi e mi trovava così, mentre mi riconsegnavano dicevano: "Oggi ha la susta", alzando le sopracciglia e roteando gli occhi. Nonna sospirava, mi dava la mano e ci avviavamo verso la scuola elementare per prendere mia sorella. Una bambina con i capelli indomabili, mano nella mano con una vecchietta in un cappotto lungo nero. Al cancello della scuola Sorella ci aspettava. 

-Che ha Checca?
-La susta. 

A casa nel pomeriggio, quando Madre e Padre rientravano, mi guardavano, guardavano Nonna.
-Di nuovo la susta?
E mia Nonna, apriva le braccia, alzava le spalle, metteva il mento in fuori e sbuffava. Madre roteava gli occhi e mi chiedeva.
- Ma perché quella faccia lunga? Sempre a lamentarti? Hai litigato con qualcuno?

A volte rispondevo.
-Non ho la susta, sono annoiata. 
Non ci credeva nessuno.

A volte non rispondevo e sbuffavo. Sbuffavo un sacco quando ero bambina. 

Padre provava a farmi il solletico. Lo guardavo malissimo. Sorella aveva da tempo capito che quando avevo la susta era meglio stare alla larga, perché non volevo giocare e preferivo starmene per conto mio.

Quando ero bambina non sapevo che dovevo spegnermi e riaccendermi per non pensarci più. La dovevo solo far scaricare, poi tornavo come al solito. Per fortuna però durava lo spazio di una giornata e niente più.

Ogni tanto mi viene ancora la susta.
-Ma che hai?, mi chiedono. Mi verrebbe da rispondere la susta, ma poi troppa fatica per spiegare cosa sia, che è normale, non è che io sia particolarmente triste o altro, che deve passare da sola e se non passa devo solo spegnermi e riaccendermi. 
-Niente, dico, sono solo un po' stanca.

Ma mentre lo dico, li sento, quei pensieri ingarbugliati dentro di me che girano e si arrovellano, sferraglianti e poco precisi. E penso che prima o poi lo spiegherò a qualcuno, questo concetto della susta, così mi si potrà capire meglio. 


Vostra sciagattante e sustata,

Platypus

lunedì 17 marzo 2014

Donne e motori

A 15 anni, alcuni miei amici avevano un gruppo musicale. Una band. Provavano a rotazione nel garage del batterista e parlavano di cose che non capivo. Io e le mie amiche andavamo non solo nei posti dove suonavano, ma anche alle prove. Ciondolavamo in quel garage facendo foto e video, sorridendo e annuendo quando non ci capivamo un tubo, loro facevano i fighi, facevano battute sconce e noi fingevamo di scandalizzarci. Carini, simpatici, musica molto pop, ma la maggior parte del tempo ci ignoravano, perché troppo concentrati su quello che stavano facendo. 

Si presuppone che l'abitudine di ciondolare nei garage delle band passi con l'età, a meno che una ragazza non sia diventata una groupie professionista. Come era giusto che fosse, anche la mia esperienza da ragazza fan è passata, insieme alla ridicola moda delle borsette minuscole. 

Quello che non mi aspettavo è che mi sarei trovata di nuovo in una stanza piena di ragazzi che facevano cose che non capivo e che mi ignoravano. Invece è successo. Ed era anche un garage, o meglio, un laboratorio. Non c'era strumenti musicali, ma una macchina da corsa da smontare. I ragazzi non erano liceali. Erano ingegneri.

Quando all'inizio dell'anno un mio amico mi aveva proposto di andare a fare da ufficio stampa per la scuderia della nostra università, mi ero detta: "Perché no? Che mai potrà succedere? Quanto potrà essere impegnativo?". Mettiamoci pure che fa curriculum. Avvisate un paio di amiche, abbiamo creato l'Ufficio Stampa. 

Per questo motivo mi sono trovata in un laboratorio, mentre ingegneri wannabe smontavano una macchina e  io fotografavo i  vari passaggi. 

Il mio stare a contatto con codesta gente, ha provocato grandi sconvolgimenti nella gente che mi circonda. Tutti i miei amici si sono immediatamente convinti di una cosa sola: che io dovessi rimorchiare, volente o nolente. Sotto le prove fotografiche:


Friends will be friends

Sono così iniziati i miei giorni a ingegneria.

Lavoro tanto, ogni tanto l'ingegnere capo ci chiama e ci dice che ha un compito per noi, facendoci sentire tanto le Charlie's Angels. Io e le ragazze abbiamo anche collezionato una serie di facce divertenti di studenti vari, stupiti per l'apparizione di  nuovi volti di sesso femminile in un'aula che di solito è la sagra della salsiccia. Ma anche i nostri ingegneri alla fine si sono abituati e noi lavoriamo in tranquillità, sgranocchiando taralli e continuando a non capirci un tubo di motori, frizioni, portamozzi e affini.

-Ehm, ragazze, l'articolo per il sito va bene, ma lo scarico dell'acqua non esiste.
-Ah.
-Già.

Vostra e sciagattante,
Platypus

domenica 16 marzo 2014

Surprise surprise

Giovedì mattina. Con una borsa dell'acqua calda legata all'orecchio dolorante, ginocchio ancora simpaticamente bloccato, naso tappato, capillare di un occhio scoppiato a causa di un colpo di tosse particolarmente violento, senza farmi mancare una gradevolissima febbricola, chiamo il Padre per avere indicazioni su un santo al quale votarmi e su quali medicine prendere per superare il morbo.

-Ecco Padre, questo il bollettino dei morti e dei feriti. A parte la rottamazione, che suggerisci?
-Aspersione con acqua santa, paracetamolo e riposo, ma non troppo, che se no ti disabitui.
-Bene.
-...
-...
-Ti suggerire anche di non fare tardi sabato sera e di non allontanarti da Roma domenica.

Le mie rotelline cominciano a girare. Non fare tardi? Non allontanarmi da Roma? C'è del marcio in Danimarca. Un sospetto, tragico.

-Padre...
-Dimmi, figlia cara.
-Non starete pensando di venire a trovarmi a Roma a sorpresa, vero?
-Nooooo, ma che dici.
-Padre, io ve lo dico, se mi venite a trovare a sorpresa io vi sgozzo.
-Sarebbe un bel titolo di giornale, "Figlia sgozza i genitori per visita a sorpresa".
-Padre, sono melodrammaticamente seria.
-Perché non ti piacciono le sorprese?

Orecchio sano al telefono, guardo lo stato di degrado nel quale sto vivendo, il caos, il disordine, il mio gatto fatto di riccioli di polvere, parte del mio armadio trasferita in pianta stabile sulla sedia, il gioco di carte Squillo di Immanuel Casto, il posacenere che vomita cicche di sigaretta, le mie scarpe che hanno colonizzato tutto il pavimento.



-Perché devo organizzare la mia fitta vita mondana.
-Devi mettere in ordine, eh?
-Già.
-E allora metti in ordine, che facciamo una puntata.

Alla fine era solo un mese che non ci vedevamo. Però mi hanno tirato un colpo basso: mi hanno portato la nonna e la cuginetta.

Una bella domenica in famiglia, che non mi aspettavo. 

Poi sono ripartiti. Ho riaperto l'armadio e tutto quello che ci avevo compulsivamente infilato per nasconderlo è crollato sul pavimento. Ben  tornata solita vita.

Vostra e sciagattante,
Platypus

mercoledì 12 marzo 2014

Non fiori, ma opere di bene

Carnevale ha fatto danni. Tanti. In primis, le amiche dell'università ormai mi chiamano Maurizio. Ma io sono magnanima. Poi ho scoperto che i baffi mi stanno bene e devo combattere il bisogno di indossarli ogni tanto per uscire.

Gli altri danni carnacialeschi sono molto più prosaici, a volte anche etilici. Per esempio sono stata più di un mese a dieta di frappe o chiacchiere, roba che me le tiravano appresso ovunque andassi. E che dici di no se te le offrono? Offrono di qua, offrono di là, mi sono resa conto che, con questi ritmi, a Carnevale prossimo potrei fare Maurizio Costanzo senza cuscino legato in pancia. Allora ho deciso. Ho iniziato la dieta. Sono andata a fare una partita a pallavolo con amici. E ho chiamato C., compagna impareggiabile di tante avventure.

-C., voglio fare movimento.

Erano le parole magiche per far uscire la nazista in lei latente. Al grido di "Chiappe d'acciaio ne voglio un paio", mi sono trovata in camera sua, con una tuta inguardabile, stesa su un tappetino, mentre lei mi dava il tempo per gli addominali. 

Dopo gli esercizi tradizionali, la genialata. Mia, ovviamente.

-No, perché C., ho scaricato questa applicazione, che ti dà sette minuti di esercizio al giorno, secondo me la dobbiamo provare.

La proviamo. 
La voce metallica degli esercizi era una chiara emanazione di Satana, un concentrato di tutti i mali del mondo. E quegli esercizi, ah, l'orrore. Piegamenti, piegamenti laterali, step, affondi e poi loro: Jumping Jacks.



Chi li ha inventati adesso starà bruciando all'inferno, maledetto da generazioni e generazioni di sportivi da l'estate-si-avvicina-e-io-c'ho-il-panettone-ancora-sul-culo.  Sembra un esercizio innocente, ma se si è altamente scoordinati e ballonzolanti, diventa un'ordalia. Specialmete se siete donne e 20€ di reggiseno sportivo non bastano.

Il dramma si è consumato al quinto Jumping Jack. Ho poggiato male il piede e un muscolo vicino al ginocchio mi ha detto, cito testualmente: " Sai che, brutta stronza? Ti è piaciuto mangiare come la maiala? Io il tuo peso non lo reggo. Mi stiro e amen".

Sul momento non ho dato peso a questa dichiarazione. Mi sono detta che stava scherzando. 

Poi per i due giorni successivi ho camminato come l'anello di congiunzione tra un velociraptor e una gallina ubriaca. In tutto ciò, per alleviare il dolore ho tenuto una siberina sulla zona scioperante. Ero gà un po' raffreddata, il freddo forse non mi ha fatto bene. Ho avuto la febbre. E poi mal di gola. Che è diventato mal d'orecchio. Il destro. Ovviamente da quel lato non ci sento.

Però ho deciso la meta della mia prossima vacanza. Pare che Lourdes di questa stagione sia bellissima.

Vostra sciagattante (da un lato), sorda (dall'altro lato), sfigatella,

Platypus

domenica 9 marzo 2014

La vida es un carnaval

Lindsay Lohan in Mean Girls l'ha imparato the hard way, ma una cosa è certa: la regola porno di Halloween e Carnevale, e delle feste in maschera generale.
Pare che se in una di queste occasioni una ragazza si tra(s)vesta in maniera molto sexy, o molto nuda, o molto da viale alberato, ecco, pare che non le si possa dire niente. 


Non voglio aprire parentesi su come questa cosa posa minare la sicurezza di alcune ragazze, prestarsi a orrori estetici inimmaginabili (roba da implorare le persone di rimettersi i leggings, per pietà). Pare sia una cosa che le ragazze facciano per sentirsi autorizzate a fare le sexy, a provarci, a mettere in mostra la mercanzia senza il commento biascicato a mezza voce, un "che troia" sprezzante che arriva sempre all'orecchio. 

Sono stata ad una festa di Carnevale, questo week end. Io, single da più di un anno, a cui la gente organizza appuntamenti al buio. Carnevale, festa, conoscere gente, mettere in mostra la mercanzia. 

Ecco da cosa mi sono vestita con la mia amica C.:



La cosa più conturbante è che i baffi mi stanno effettivamente molto bene. 

La regola porno è sopravvalutata. Solo l'autoironia ci salverà.

Vostra e sciagattante,

Platypus Costanzo

mercoledì 5 marzo 2014

Avventure ad alto tasso di distrazione, vol.5 : Capelli, capelli [da cantarsi come In fossi figo]

Se un giorno diventerò calva, non ci sarà di che stupirsi. I miei capelli potrebbero decidere di abbandonarmi da un momento al'altro e, per carità, non avrebbero tutti i torti. Tra tutto quello a cui li sottopongo volontariamente (ricordate?) e quanto gli capita per caso, è un mistero che non abbiano già deciso di ritirarsi.
Specialmente la ciocca davanti a sinistra. Ne ha passate tante, poverina. Tipo, a 11 anni, colonia estiva. Phon da viaggio, io che asciugo i capelli ad una bambina più piccola di me e, mentre mi chino con fare materno su di lei, odore di risucchio e puzza di bruciato. L'educatrice ebbe la prontezza d'animo di staccare il phon. Così, mentre io piangevo come un vitello, mi tagliarono la ciocca incastrata.

L'anno scorso la stessa ciocca è stata coinvolta in un altro spiacevole incidente. In università, giornata ventosa. mi sto accendendo una sigaretta. La sigaretta è rimasta spenta, ma la mia ciocca ha fatto una fiammata meravigliosa, per l'ilarità delle mie amiche. io ho riso meno, anche perché la fiammata si è portata via un pezzetto di sopracciglia.

Na vitaccia.

Per darvi un'idea del quadro, vi dico che mentre vi scrivo ho i capelli triangolari. 



Si, tipo Miss Germanotta, ma ricci e neri. Erano mesi che non succedeva. Ho provato a sistemarli con dei ferrettini, ma è successo quello che doveva succedere: ne ho rotto uno e un altro è disperso. Verrà sputato fuori al prossimo shampoo. Ma perché i miei capelli sono triangolari? Semplice, c'è una risposta sola: sono un po' cojona. Si, lo so, non è una novità. 

Il problema dei miei capelli è che c'è tutta una procedura per lavarli e sperare, attenzione, sperare, che io assomigli poi a qualcosa di umano. Il complicato procedimento prevede, oltre all'accensione di un paio di ceri votivi, l'utilizzo di shampoo, balsamo, due rapidissimi colpi di spazzola, giusto per evitare che diventino un nido per rondinelle, poi mousse modellante e asciugatura a testa in giù. Se viene a mancare anche solo uno di questi elementi, sono spacciata. 

Ieri sera. Doccia. Mentre gorgheggiavo meno che soave sotto il getto dell'acqua calda, insapono. Sciacquo.  Devo mettere il balsamo. No, non è nella cabina della doccia. Sfidando lo spiffero gelido esco, mi avventuro fino al mobile del bagno dove sono Certa, assolutamente certa di aver fatto scorta di balsamo specifico per i capelli ricci, indomabili, indefiniti che se non usi sto prodotto anzi mettiti una parrucca. Sono convinta di averne comprato almeno due flaconi. Effettivamente ci sono due flaconi del colore e della marca giusta. Ma non sono di balsamo. Sono di shampoo. Non c'è un flacone di balsamo. Non uno, non un'ultima goccia per provare ad evitare la sterpaglia. Nisba. Nada de nada. 

E alloa ricordatemi ed immaginatemi così, che, dopo essermi asciugata i capelli, mi guardo allo specchio e ricompongo l'Urlo di Munch con il mio viso ed i miei capelli triangolari.

Vostra sciagattante e triangolocrinita,
Platypus

martedì 4 marzo 2014

Senza intenzione non è peccato

I corsi universitari che iniziano alle  8 del mattino sono un crimine contro l'umanità.

Fissato questo assioma iniziale, che come un mantra ripeteremo fino alla penetrazione del messaggio, posso iniziare a narrare l'avventura odierna. Perché ogni giorno è una grande emozione, non sia mai che le mie giornate seguano una bella tratta lineare. No. La noia è per le persone meno complicate.

Lezione alle otto, dicevamo. Sveglia alle sei e mezza. Nel portone realizzo già una nota negativa: piove. E io ho perso l'ombrello. Sul quadrante dell'incazzatura scatta un più uno. Ma siamo ancora in zona verde. Autobus, università. Aula. 7.50. Sono in anticipo di dieci minuti. Mi accascio su una sedia e aspetto. Comincia ad arrivare gente. Svengo un po' sul tavolo, mi faccio un pisolino di cinque minuti.




Arriva la mia amica G. 
8.00. Niente.
8.30. Nisba. La lancetta dell'incazzatura, con un simpatico +3 è in zona gialla. 
8.40. Brusio indistinto tra la gente. Comincia a montare il nervosismo. E poi arriva lui, il genio. 

-Perché io mi so alzato alle sei e mezza, mi sono fatto quaranta minuti di raccordo e questo non si presenta! Si fa secondo voi? Eh, si fa secondo voi? Non è possibile! Non è umano! Ma quando arriva io gliene canto quattro! Quaranta minuti di raccordo! Mi sono svegliato alle sei e mezza!

L'incazzatura scatta con un meraviglioso +5 in zona arancione. Perché non sei il solo che si è alzato presto, io sto qui dalle otto meno dieci, si, anche io mi sarei rotta le scatole, ma aspetto e mi sto zitta, non urlo come una gallina spennata e non provo a far innalzare le barricate nei corridoi delle facoltà di lettere. no, non lo farò e quindi, per cortesia, porta le tue madonne urlate da un'altra parte o taci e bestemmi tra i denti come noi. 
Alle 9.10, dopo che gente prode e valorosa è partita in missione alla ricerca di notizie nelle varie segreterie, già cominciano a girare voci sulla volontà del professore di trasferirsi in Mongolia senza avvisare, partono avvistamenti di monaci trappisti che gli somigliano in monasteri sconosciuti e la maggio parte delle persone arriva alla conclusione che se metti la lezione e poi non ti presenti sei uno stronzo. 

La conclusione alla quale arriviamo io e G. è che se non ci prendiamo un caffè rischiamo di fare una strage. La lancetta della mia incazzatura è oscillante tra il giallo e l'arancione, ma il caffè me la fa scendere in una stabile e sicura zona gialla.

-Ma voi, G. e C., che fate rimanete?
-si, abbiamo lezione nel pomeriggio. Tu?
-Io penso andrò alla ricerca dell'ufficio Erasmus per consegnare la domanda. 

Ufficio Erasmus che nessuno sa dove sia. Si vocifera tra Narnia, l'Isola che non c'è e il Molise. O che appaia solo quando la scadenza per presentare la domanda sia scaduta. In questi casi, l'unica cosa da fare è rivolgersi in segreteria, dove lavorano gli studenti del part time. 

Ma il destino malandrino ci mette un piede e, nella strada verso la segreteria, incontriamo uno dei prodi che era andato a chiedere notizie del professore desaparecido.

-Gli hanno telefonato. Ha detto che non gli hanno ancora rinnovato il contratto e fino a quando non lo faranno non farà lezione. Il corso forse inizia ad aprile.

Con un +8, ormai il quadrante dell'incazzatura è in zona rossa.

Io capisco che so stronzi e non ti hanno rinnovato il contratto, per carità, anche io sarei imbisciata, ma n'avviso? una nota? Un testamento, una nota con le ultime volontà? Studiamo comunicazione e si vede, mazza come si vede. Un biglietto, che te costava un biglietto?

Rendendomi conto che la giornata è ormai andata, riesco a trovare l'Ufficio Erasmus, nascosto in un sottoscala, dietro un carrello delle pulizie. 

Chiuso.
La lancetta dell'incazzatura è partita,  il sistema è andato in ebollizione, la testa si è girata al contrario tipo bambina dell'Esorcista. Ho proferito una simpatica esclamazione, che, come mi ha spiegato un amico di mia sorella che fa il catechista, se detta senza intenzione non è peccato. Fidatevi, era peccato.



Per gli appassionati di enigmistica, un simpatico indovinello per carpire l'esclamazione. 


Sono tornata a casa, mi sono messa a letto sotto le coperte e mi sono rifiutata di interagire con il mondo per le successive due ore.

Vostra e sciagattante, 

Platypus

domenica 2 marzo 2014

Avventure ad alto tasso di distrazione, Vol. 4- Ipocondria portami via

Si presume che essere figlia di medico avrebbe dovuto schermarmi dall'ipocondria. Diciamocelo, gli ipocondriaci non sono la categoria più amata dai medici, anzi. Eppure sono cresciuta così, con l'occhio attento ad ogni sensazione sbagliata, ad ogni valore irregolare, ad ogni dolore che potesse significare qualcosa di più. 

Ho smesso di andare in bici, perché, statisticamente, il maggior numero di morti per emorragia interna a causa della milza rotta avvengono per cadute sul manubrio. E anche perché mi pesava il culo e l'equilibrio non è proprio il mio forte. Ma comunque.  

Il genere di cose che faccio è questo, oltre a googlare vari sintomi che mi autodiagnostico. Nel 90% dei casi è tumore. O una qualche sindrome, ovviamente mortale. Poi mi calmo, razionalizzo e chiamo padre. Che, giustamente, mi manda a quel Paese.  E poi mi rassicura. Ma mi rimanda a quel paese. 

La mia ipocondria sconfina quando si tratta di interrogare la mia amica C., che studia medicina. Man mano che le chiedo e le faccio domande, mi diagnostico di tutto. Anche qui il risultato è lo stesso. Mi rassicura e mi manda a quel paese. Idem con Sorella. 

Potete immaginare il mio personalissimo dramma quando ieri mattina mi sono svegliata, ho inforcato gli occhiali e vedevo sfocato dall'occhio sinistro. Il panico. Ho lavato gli occhiali. Niente. Rilavato gli occhiali. Stessa storia. Panico. Ero invitata ad un caffè. Ho chiesto ad un mio amico ingegnere di controllarmi le lenti, casomai fossero rigate o graffiate. Nulla.

Una volta a casa ho acceso il pc. Con l'occhio offeso chiuso, ho cercato su Google i miei sintomi. Glaucoma. Tumore celebrale. Venti minuti di uggiolio seduta sul letto, chiedendomi chi dovessi essere stata in un'altra vita per meritarmi questo. Ho rilavato gli occhiali. Niente ancora. 
Ho deciso che un pisolino sarebbe stato propedeutico ad un eventuale miglioramento o peggioramento.

Dopo due ore mi sono svegliata. Prima di rimettermi gli occhiali, ho ricontrollato le lenti alla luce. Esattamente al centro della lente sinistra, nitida e marcata, la mia impronta digitale. il pollice per la precisione.

Mi sembra giusto, no, dopo dieci volte che lavo gli occhiali, che ogni volta io ci abbia messo le dita sopra.

A sera mi ha chiamato C.

-Hey, come va?
-Niente, oggi pensavo di avere un tumore al cervello o un glaucoma, ma era solo la lente offuscata da una mia ditata.
-Va a quel paese.

Vostra, sciagattante e ipo-ma-pur-sempre-vedente,

Platypus
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