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venerdì 31 gennaio 2014

Avventure ad alto tasso di distrazione-Vol 3: Se una sera d'inverno una miope

 Se una sera d'inverno una persona fortemente miope, volesse rientrare a casa, farebbe certamente una cosa buona e giusta. Lampi, tuoni e fulmini, bagnata come se fosse appena uscita dalla doccia, la nostra miope combatte con l'ombrello. 
Prova a chiuderlo, questo di rovescia, lo raddrizza, lo rigira, lo sistema, lo chiude con la sua testa nel mezzo, finalmente, riesce a chiuderlo, più o meno. Appena entrata nel portone, lo sbalzo termico si fa sentire: gli occhiali della nostra miope, belli, tartarugati e grandi, si appannano. Si tratta di cecità totale. 

La cara miope decide che può perdere cinque minuti ad aspettare che si spannino. Non ha fretta, anzi, così può cominciare a sfilarsi i guanti, ad allentare la sciarpa e a sbottonare il cappotto, in modo da non morire per un colpo di calore in ascensore. La miope attende, pazienta, nel frattempo si sente anche fighissima nello scuotere un po' i capelli e nel decidere cosa mangiare per cena.  Gli occhiali ancora non si spannano, e lei si ricorda di quando a Londra con la famiglia, entrarono in una serra tropicale. Quattro persone con gli occhiali, quattro ciechi che si cercano a tentoni dietro la nebbia degli occhiali. 

Cominciano ad esserci segni di spannamento, pochi, ma abbastanza perché la nostra cara miope veda una figura da, vetro del portone. Sta arrancando dal cancello verso il portone. Non sarà forse...ma si, si, è la cara amica che torna dall'università!! La miope spalanca il portone, pronta ad accogliere l'amica. Ed urla, con voce stentorea: Weeei bella! Dall'altro lato silenzio.

Gli occhiali si spannano definitivamente. Davanti alla nostra miope una signora di mezza età. Che la guarda male, malissimo. La miope abbozza. NIcchia. Si sposta per far passare la persona. Cerca di ricordare se il negozio del cinese all'angolo venda vanghe per seppellirsi. Arrossisce tanto che le si appannano di nuovo gli occhiali. Continuando a guardarla male, la signora passa oltre. La miope si finge un opossum morto. 

Odio l'inverno per questo motivo.

Vostra,
Platypus

mercoledì 29 gennaio 2014

Noi tre

Quando Snoopy è felice balla, agita le zampine e travolge Lucy ed il suo malumore, le schiocca un bacio e continua la sua danza sfrenata. A me piacerebbe danzare in maniera sfrenata, ma mi limito ad esprimere la mia felicità con la contemplazione e con quello che mia sorella chiama "un sorriso da ebete". Quando contemplo, di solito C. mi guarda e mi chiede se io stia bene. 


Finalmente oggi sono riuscita a vedermi con E. e A., tutte e tre assieme,  una cosa che non riuscivamo a far capitare da luglio. Dalla mia laurea, per dire. Troppo tempo. Così tanto tempo che avevo l'ansia, in macchina ero un ornitorinco muto e aggrappato alla cintura, perché io sono così, mi agito. Avevo addosso una paura folle. E se non funzioniamo più? E se siamo cambiate a bestia e non abbiamo più nulla da dirci? E se mi fossi dimenticata che ci vogliamo bene con tutte le nostre particolarità e adesso le trovassi intollerabili? E se la smettessi di farmi tutti questi problemi?
Per la prima mezz'ora tutte e tre riunite sono stata in silenzio, a metabolizzare, noi tre, assieme, di nuovo, a confonderci i pensieri e rubarci le parole. Nell'abbraccio di gruppo saltato mica ero io che saltavo, era il mio stomaco che si intrecciava e si chiudeva, temevo di trovare qualcosa di unheimlich, invece tutto lì, tutto come doveva essere.

Tutto perfetto. E. che ci racconta del prossimo progetto, ovvero farsi rossa, A. che racconta di amici esami e della pupa a cui fa da tata, io che aggiorno sulle mie ultime figuracce, capirsi e ricordarsi con frasi a mezza bocca e sguardi. Noi tre.

Che detta così, sembra ci conosciamo da una vita. In realtà sono appena due anni. Come tutte le volte in cui non ci vediamo da un po', si è ricordato delle prime volte che ci siamo riconosciute nelle aule e nei corridoi dell'università. Un racconto che, come tutti i racconti importanti, è ormai diventato mito, o meglio, fiaba della buonanotte, perché come delle bambine siamo fissate su dettagli. Dettagli che ormai sappiamo a memoria, ma che ci piace sentirci ripetere. La camicia a quadri celesti di E., le sigarette sulle scale d'emergenza di A., i miei capelli cortissimi. Tutte queste piccole cose, così rassicuranti nell'essersi tatuate nella nostra storia.
E mentre ricordavamo e raccontavamo, A. ed E. si sono commosse, ma commosse veramente, fino alle lacrime, roba che il cameriere avrà pensato ci si fosse commosse per le fettuccine ai funghi e avrà pensato "Ma guarda che cojone". E mentre le mie amiche si commuovevano, io me ne stavo in silenzio a covarle con lo sguardo, senza dire niente, perché dire le cose importanti a voce non mi riesce, mi partono anche, me le sento salire, ma arrivano, sbattono contro i denti e poi "nah", e se ne tornano da dove sono venute. Sono riuscita a dire alle mie bimbe quello che avevo nel cuore solo una volta. L'anno scorso, sagra del vino, intorno alle due di notte, dopo esserci bevute due cantine, ecco che le guardo e dico "Vi voglio bene". E loro due scoppiano a ridere. Ma forte. Che diciamocelo, non è incoraggiante nell'espressione dei sentimenti.

 -Perché io pensavo che fare nuove amicizie dopo il liceo fosse impossibile, sono cresciuta con gli amici delle elementari e sono sempre statti quelli...poi a vent'anni sei più sgamata, riconosci prima i difetti...
-Ed è per quello che quando ti fai amici più in là che gli vuoi più bene: nonostante tutti i difetti.

Le guardavo le mie amiche ed ho notato che qualcosa era effettivamente cambiato. Noi. Per tutte e tre sono stati due anni importanti, tra ragazzi storici che diventano storia vecchia, studio, stanchezza, bisogno di staccare da tutti e il cominciare a pensare a un dopo universitario. In qualche modo, a fasi alterne, con telefonate fiume o messaggi lampo, ci siamo state, le une per le altre. Se due anni fa la nostra maggiore preoccupazione era uscire al momento della pausa della lezione per fumare una sigaretta e finire per non rientrare, stravaccate sul pratone, contendendoci un triangolo di sole con altri studenti, adesso ecco che, sbam, un'età più adulta è piombata su di noi. Adesso lavoriamo, chi più chi meno, studiamo e ci arrabbatiamo, più serie e più sfarfallone contemporaneamente.

A quel tavolo non eravamo più le stesse persone di due anni fa. E nonostante tutto, andava bene così.

Alla prossima serata etilica lo ripeterò, alle mie bimbe, lo ripeterò che voglio loro un gran bene.

Vostra sciagattante, felice e commossa,

Platypus





sabato 25 gennaio 2014

Stakanov a confronto è un dilettante

Mia madre è cattolica. Nonostante questo ha fornito me e mia sorella di un'educazione calvinista e di una serie di massime, del tenore di "Noi siamo solo ciucci da lavoro ed è quello che faremo per tutta la vita". Se al liceo ridevo di questa cosa, entrando nella vita vera mi rendo conto dei danni che un'educazione di questo tenore possono portare alla psiche di una ragazza ventenne [che poi Platypus sono quasi 22, nonostante tu provi a negare]. A questi retaggi di traumi infantili, aggiungiamo il mio miglior amico G., che mi ripete sempre questa simpatica frasetta, quando mi vede sollazzarmi invece di studiare: "Fare il proprio dovere è solo fare la metà di quanto si dovrebbe fare". Si può ben capire come a questo punto il mio senso di colpa sia diventato cronico ogni volta che mi rilasso, o che ci provo.

Il problema fondamentale, quindi, è che adesso il mio Super Io decide per me. Tipo, c'è un lavoro da fare all'ultimo minuto? Here I am. C'è un lavoro con una scadenza abbastanza lontana che potrei fare, o potrei passare ad un altro? Ma tranquilli, eccomi qui.

"Lavoro, faccio tutto quello che serve e poi te spiccio pure casa"

Teoricamente nessuno mi obbliga. A parte una vocina nella mia coscienza. Che tra l'altro è quella che mi ha ricordato che non ho vent'anni, ma mi avvicino pericolosamente ai ventidue. Si tratta della stessa vocina che quando mi vede troppo rilassata sta lì a fare pat pat con piedino per terra. Ok, mi rimetto al lavoro.

Ovviamente, con questa mia vocazione al martirio spontanea, con questo stacanovismo di ritorno, con il mio essere workaholic, nella vita di fregature ne ho prese tante, tipo progetti di studio o di lavoro che dovevano essere di gruppo fatti solo da me. O tipo al liceo c'era questa amica per cui facevo i temi. Cose così.

"Ancora una tazza di caffè, così poi finisco anche il progetto che scade tra tre mesi" 
 Adesso è raro che io mi faccia sfruttare. Sono diventata un attimo più sveglia. Non troppo, perché non sia mai, però un pochino di più. Rimango comunque "affabala", come mi ha raccomandato mia nonna, "adà jess sembr affabala e disponibile, alla nonna, che la gente ti deve canoscere così" ["Devi preservarti affabile e disponibile, oh cuore di nonna, tanto che deveno essere le tue qualità distintive tra i popoli"].

E allora lavoro, lavoro sempre col sorriso, lavoro anche quando non me lo chiede nessuno. 

Si spererebbe a questo punto che il paradiso sia garantito, ma nein. Potrei sempre non aver lavorato abbastanza.

Vostra e sciagattante,
Platypus

giovedì 23 gennaio 2014

Brutte giornate.

Ci sono delle giornate che iniziano con un NO enorme a caratteri cubitali che mi atterra sul cuscino. Senza alcun motivo particolare, fino a quando non mi trovo davanti ad uno specchio. E allora mi rendo conto che i miei brufoli si sono svegliati in pieno disturbo ossessivo compulsivo, dato che me ne sono spuntati due. uno per zigomo. Perfettamente simmetrici. 

Si, sta succedendo. 
Attestata la dura verità ho solo da guardare al bright side of life, ovvero, che se ne copro uno con due tubetti di correttore e mi metto di tre quarti, potrei sembrare una modella anni 80, di quelle androgine e con zigomi altissimi ed enormi. 
La giornata può solo continuare così, con i poster che mi cadono in testa, l'ultimo pezzo di pizza edibile al bar viene preso dalla persona in coda prima di me, mi finiscono le cartine e fuori piove. E magari becco l'unico giorno dell'anno in cui il mio cinese di fiducia è chiuso. 

Allora riattaccherò il poter cercando di metterlo dritto, prenderò l'insalata di plastica che è anche più sana (sic), non fumerò e ci guadagnerò in salute. 

-In realtà credo che il mio karma stia cercando di dirmi qualcosa, cara la mia C.
-Platypus, fai qualche buona azione.
-La settimana prossima dono il sangue. E forse un rene.
-Non può essere così tragica.
-Lo è. il mondo sta cercando di punirmi per qualcosa. Non so ancora cosa, non si è capito. 
-Esagerata.
-Allora non si spiegherebbe il mio essere al posto dei broccoli nella catena alimentare, dato che nella mia vita mi hanno urlato contro un operatore della TIM ed una commessa dell'Oviesse, e senza che avessi colpe.
-Si, della commessa di ricordo. Mi chiedo perché tu ci vada ancora dall'Oviesse.
-Sindrome di Stoccolma. Poi secondo me, se cambio negozio si arrabbiano e mi picchiano.
-...
-Sempre che si accorgano che non ci vado più.
-Tu stai male.

Qualche giorno dopo questa conversazione, C. mi ha fatto un regalo, così, a caso, io mi ero anche scordata che le giornate no esistano.


Inutile dire che non userò mai questi post it. Sono troppo carini per essere sprecati con appunti stupidi. Saranno usati solo ed esclusivamente per cose serie. Serissime. 

Ogni volta che avrò una giornata che inizia male, guarderò questi simpatici pinguini e penserò :


Vostra, sciagattante e sempre e comunque al posto dei broccoli,

Platypus

mercoledì 22 gennaio 2014

A serious reading problem-2

La sessione non aiuta ed io rimango indietro con le mie letture. Ma stoicamente continuo a leggere libri che tutti hanno già letto secoli fa e a sentirmi figa per questo motivo.
Mentre ero ancora a casa ho pensato che il momento fosse giunto, i tempi fossero maturi. Ed ho letto Se una notte d'inverno un viaggiatore. Si, proprio quello. A ventun anni è tardi, lo so, ma serve un momento giusto per i libri. Un libro letto al momento sbagliato e puff, ecco un libro che odierai per sempre senza un motivo. Essendo cresciuta con Calvino, dalle Fiabe Italiane a I nostri antenati, per non parlare de Il sentiero dei nidi di ragno, ho pensato bene che un libro sulla lettura ed i lettori doveva essere gustato appieno nel pieno delle mie facoltà mentali. 
Il problema è che avevo iniziato a leggerlo a sedici anni, su consiglio di un amico. Alla terza pagina mi ero addormentata. Sono segni che all'epoca non potevo ignorare. Ed allora ho rimandato, rimandato, fino a quando non mi è letteralmente caduto in testa dalla libreria dei miei. Anche questo segno (e bernoccolo) non è stato ignorato. Era il momento. 

Sono molto felice di aver aspettato a leggerlo. Mi è piaciuto, molto. 

Tra una sessione di studio matta e disperata e l'altra, ho poi letto La strada di Corman Mccarthy. Avevo già visto il film e avrei dovuto essere preparata, invece nein, un cazzotto nello stomaco dopo l'altro. Un libro duro, essenziale ed asciutto, che però non aiuta se avete il male di vivere. No, non aiuta per niente. 
Adesso alle mie paure e paturnie, aggiungiamo anche quella di una non specificata catastrofe che mi obblighi a vivere raminga tra violenza e cannibalismo. 

Proprio quello che serve per vivere sereni.

Vostra sciagattante e preoccupata,
Platypus

martedì 21 gennaio 2014

Ho visto un film

Ho visto un film.
Il film in questione è Frances Ha, e non starò qui a farvi una recensione, ne trovate una bellissima qui, su Pensieri Cannibali, grazie al quale ho scoperto questo film. Si tratta di un film bellissimo, veramente, era da tanto che non vedevo un film che mi facesse così tanto il solletico ai sentimenti. Sarà per la storia e per questa citazione:

È quella cosa quando sei con qualcuno e tu lo ami e lui lo sa e anche lui ti ama e tu lo sai. Ma sei a una festa e tutte e due state parlando con altra gente, poi guardi in fondo alla sala e i vostri sguardi si incrociano, ma non in maniera possessiva o con l’intenzione di fare sesso, ma perché quella è la tua persona in questa vita.

Si, sarà per questa e per Modern Love di Bowie, che parte sulla corsa di Frances per strada. Sarà che Frances, la protagonista, somiglia tantissimo ad una mia amica, una di quelle con la quale posso incrociare lo sguardo durante una festa, una delle mie cinque persone in questa vita. 

Come Frances, anche E., la mia amica è alta e bionda, anche se è stata castana, rossa e fucsia per un pomeriggio. Anche  E. è sconclusionata, anche se invece di fare la coreografa al massimo balla con la nipotina mentre la gatta le sta a guardare. Anche E. ogni tanto si perde, fa un po' di giri a vuoto, ma poi riesce a dare una direzione.

La mia storia d'amicizia con E. è iniziata alla triennale, come dovrebbero iniziare tutte le amicizie universitarie, sul prato, bigiando lezione, fumando troppe sigarette in una giornata di sole. E il resto vien da sè, con una caterva di Glory Days alla Springsteen, io, E. e A., completamente diverseed unite da un qualcosa che ancora non si è ben capito.

A Capodanno era un po' che non ci si beccava, nè telematicamente, figuriamoci fisicamente e a mezzanotte e un quarto  m'ha chiamata, per poi chiamare A.

E il succo delle telefonate era: "Noi semo tre, non potemo esse due, mi mancate, vi voglio bene". 
Che ho trovato il massimo della poesia, ma seriamente.

E allora, stasera, parte il consiglione: vedetevi Frances Ha e pensate alle vostre amiche, quelle un po' sfarfallone che sono pezzi di anima. 

Vostra e sciagattante,
Platypus


venerdì 17 gennaio 2014

Not today

Ho commesso un omicidio.
Non ho avuto pietà, ma era necessario. Il mio sacco del bucato è stato svuotato e ci ho fatto una lavatrice. Anzi, due, una di bianchi ed una di colorati. Non potevo fare altro, ormai occupava abusivamente il mio bagno da quando sono tornata a Roma. Era così pieno che stava in piedi da dolo, aveva personalità giuridica e ci intrattenevo deliziose conversazioni mentre mi facevo la doccia. 

Cosa diciamo noi al dio della lavatrice? NOT TODAY.
In sessione purtroppo funziono così, tutto va rimandato a momenti più rosei. 


Platypus

mercoledì 15 gennaio 2014

Avventure al alto tasso di distrazione- Vol.3, boccaccia mia taci

I miei amici ed i miei familiari lo sanno. A volte mi risveglio dalla mia vita da ornitorinco per proferire verbo. Il verbo più sbagliato e meno opportuno. Non è colpa mia, è che pare che io sia farfallona e che la mia mente sfarfalli con me. Cose che ad altri sembrano ovvie, a me bisogna spiegarle. E se non me le si spiega in anticipo, rischio delle atroci e colossali figuracce. Che, puntualmente arrivano.

Perché se mi capitavano nell'infanzia, mia madre poteva sbrigarsela con un "Ma che cosa si inventa questa bambina" e smorzare con una risata. Da una certa età in poi non sono stata più giustificabile e la gente mi ha lasciata sola nelle mie crociate per conquistare il Sacro Graal delle figure di merda.
Nuda, indifesa ed abbandonata in balia della mia boccaccia. 
Una volta, avevo 15 anni, si era a Londra con la famiglia per il ponte della Befana. La sacra famiglia era stata invitata a cena da un esimio surgeon inglese, il mentore di padre durante i suoi master oltremanica. Gente fine, elegante, di quelle persone che abitano in quelle favolose ville vittoriane che sono il mio sogno proibito sin da quando ho facoltà di intendere e volere, fortissimamente volere. Perché tutto fosse più facile, il nostro albergo era esattamente dall'altro capo di Londra. 
Arriva la sera della cena. Dopo la rivista di mia madre nella camera d'albergo ("Padre raddrizzati la cravatta, Sorella raddrizza la schiena e sistemati il collo della camicia, Platypus eccoti la salvietta struccante per tutta quella matita nera che ti fa sembrare un panda"), prendiamo la metro e poi un taxi, dal quale scendiamo in pompa magna, mentre il collega di mio padre ci aspetta sulla soglia della villetta dei miei sogni. 
Baci, abbracci e saluti calorosi, per quanto possa essere calorosa una coppia inglese abbastanza upper class. Si prendono i posti per la cena ed io capito tra la padrona di casa e Madre. Si fa la small talk del caso, cominciando dal tempo, mavalà, e poi, incauta, la nostra ospite si rivolge a me.
-So, Platypus, you took the taxi from the hotel, right?
Ioesaltata, ecco il momento di far vedere che l'inglese lo so, e lo so bene, nel mio migliore accento Posh, copiato da Victoria non ancora Beckham dai tempi delle Spice, rispondo:
-Oh, we took the tube and than the taxi.
In quel momento Madre ha un accenno di sincope e Sorella comincia a tirare fuori le carte per escludermi dallo stato di famiglia. Madre, che ha ormai un incarnato color Bordeux, annata del 1976, si recupera dal mini infarto e comincia a ridacchiare istericamente. Sorella mi fulmina con lo sguardo ed io le guardo senza capire. La lady, invece, mi rivolge un sorriso, dolce, di quei sorrisi che le donne inglesi rivolgono solamente ad una pianta d'ortensia in chiara crisi di sopravvivenza, un sorriso dove erano compressi anni di marmellate fatte in casa e passati ad andare in visibilio per i vari Royal Baby e Lady D. Madre entra in modalità stress post traumatico e continua a sillabarmi "tube" con la bocca e scuotendo la testa.

"Madre ma se mi chiedono di fare conversazione?"

Che ne sapevo io che andare dall'albergo a casa loro in taxi ci sarebbe costato un rene a testa, ma che dovevamo comunque evitare la figura del poverello di Assisi? A quanto pare questo evento ha dato a mia madre la spinta necessaria per imparare l'inglese, motivo per il quale ho passato le vacanze natalizie a correggerle esercizi.

Vorrei poter scrivere che con gli anni le cose sono migliorate. Vorrei. 

L'altra sera sono andata al cinema con degli amici. Abbiamo visto "Il capitale umano", di Virzì. Tornando a casa abbiamo incontrato un'amica che non vedevamo a tempo.
-Allora ragazzi, cghe avete fatto stasera?
-Noi siamo stati al cinema, abbiamo visto l'ultimo di Virzì.
-Ah, com'era?
-Bello, no, poi la storia, meritava. L'unica cosa è questo accento milanese-brianzolo, non ti sto a dire, "veh, figa", un fastidio.
Attorno a me un tripudio di risate isteriche.
-Ragà, ma che vi ridete, che anche voi non l'avete proprio sopportato, siete stati fino ad ora a bestemmiarlo in tutti i dialetti d'Italia.

Cala il gelo, l'amica sorride, parla del tempo e se ne va.

-Platypus, hai realizzato che lei è di vicino Milano?
-...

"L'ha detto, l'ha detto veramente"


Si tratta solo dell'ultima in ordine cronologico. In senso assoluto penso non smetterò fino alla morte. E anche lì ci sono un sacco di possibilità.

Vostra e sciagattante,

Platypus


martedì 14 gennaio 2014

Non è colpa mia, ma del biliardino

Gli ornitorinchi femmina si distinguono dal maschio solo per lo sperone avvelenato. Per il resto si somigliano molto. Essendo io, almeno spiritualmente e come animale totemico, un ornitorinco, rientro alla perfezione nel caso. Non sono esattamente la creatura più femminile di questa terra. Certo, mi adorno e mi trucco e posso passare ore davanti ad una vetrina in sindrome da Stendhal da scarpe, ma nei modi..no, nei modi, no, c'è poco da fare.

La mia è però una generazione che le colpe le scarica su qualcun altro, quindi potrei guardarmi un attimo dentro e cercare qualcuno o qualcosa con il quale giocare simpaticamente a scaricabarile. Dopo una profonda ed intensa seduta di introspezione, ho trovato il colpevole nel biliardino, nel calcio balilla. Può  sembrare un gioco innocente, ma non lo è. 

Sin da quando ho avuto un coordinazione abbastanza decente, è capitato che al mare Padre mi mettesse tra due stecche, in pieni su una sedia, spiegandomi pazientemente che no, non si rulla*, no, non si fa il gancio**, che la porta nella quale devi mettere la pallina è l'altra e che no, la suddetta pallina non si mangia. Gli anni sono passati, ma una cosa non cambiava: io, al mare che, attorniata da amici maschi, giocavo al biliardino. Mentre le amichette giocavano con le Barbie e poi a burraco, io avevo una schiera di amici che mi vedevano come unO di loro.

Penso di averci investito svariate paghette estive, di gettone in gettone, sempre più costosi man mano che si passava all'euro ed aumentava l'inflazione. Fino ai dieci anni non ho avuto problemi, giocavo tanto con i maschi ero ero ben accetta, nonché competitiva e faina come poche. Arrivò anche l'anno in cui mi cugino ricevette in regalo un biliardino. Fu la fine. 

L'estate dei miei undici anni tutto è cambiato. 
Prima giornata al mare. Prima partita dell'estate, già la pregustavo. E poi, il dramma. Nessun maschio voleva stare in squadra con me. Nessuno. E quando finalmente mi vollero far giocare, ecco che in attacco, non entravo più tra le stecche. No, non ero ingrassata: i geni materni si erano prepotentemente destati ed ero fornita di fianchi. Non il seno, che già da un paio d'anni mi obbligava all'utilizzo del pezzo di sopra del costume, non il ciclo, ma i fianchi mi comunicarono che il mio corpo era ormai femminile. E che tutte le partite di biliardino avrei dovuto giocarle a distanza e chinata in avanti. E che, nonostante brava, ero agli occhi dei ragazzini una specie di aberrazione.A undici anni ho detto così addio a quelle violente partite, nel corso delle quali ho imparato la maggior parte delle parolacce che conosco. Si, continuavo a giocare, ma in soggezione. 
Fino a quando tutti hanno raggiunto l'età in cui l'amica Femmina-ma-che-non-si-comporta-come-tale è diventata utile per fare da ponte nelle questioni di cuore. Ero diventata una compagnona.

A quattordici anni un'altra partita a biliardino mi ha fatto capire che stavo sbagliando qualcosa.
Vacanza studio in Inghilterra, io cotta come una pera per Lukas, bietolone tedesco alto e dinoccolato, biondo come pochi e con una cosa che all'epoca descrivevo come barba, ma che non era altro che lanugine.  Su consiglio di un'amica più navigata di me, lo invito a fare una partita a biliardino, un singolo. Al biliardino accanto giocava questa mia amica con la sua di cotta. C'è poco da dire: lo asfaltai. Al biliardino accanto la mia amica fingeva di non saper giocare ed ecco che ad un certo punto parte la lezione di biliardino, tipo lezione di golf. Il suo tedescone dietro di lei che le spiega come muovere il polso e come marcare e di lì a poco scatta il limone internazionale ed interculturale. Bella tattica, penso io. E mi offro di insegnare a Lukas a tirare. Lui mi guarda e se ne va, tra un coro di risate teutoniche.

Caro Lukas, ovunque tu sia, sappi che mi spiace per quel coro di risate che ti seguì nella tua uscita dalla Common Room. Mi spiace, mi spiace veramente, ero giovane e non capivo come l'essere battuto da una ragazza potesse violentare la tua psiche da quindicenne. A mia discolpa devo dire che tu non sapevi manco dove stesse di casa il biliardino.

Più tardi quella sera mi beccai una lavata di capo sul fatto che non potevo comportarmi come un maschio se volevo piacere e che, per carità, la smettessi di dire parolacce ogni volta che sbagliavo tiro. E che per favore non provassi a vincere a tutti i costi.

"Con questa non c'è speranza. E le togliessimo le mani invece della voce?"
La lezione non l'ho mai imparata. Gioco ancora a biliardino con i ragazzi, sono una loro compagnona e non mi vedono mai come un essere di sesso femminile. Gioco ancora e sempre per vincere. Ho sostituito il vario panorama di imprecazioni italiane con un "merde" francese sibilato, perché mi sembra un attimo più fine. La mia assidua frequentazione dei biliardini mi ha dato solamente modo di espandere il ciclo di amicizie maschili. Ed il mio essere mascolina, con i testicoli retrattili all'occasione.

Alla fine credo che perdere volontariamente a biliardino non faccia per me. Quindi magari la colpa del mio essere così non è neanche di questo gioco. Ma allora la responsabilità è solo mia.  Più facile dare la colpa a quegli omini di plastica rossa e blu e alla Garlando in generale.

Ma mai e poi mai perderò appositamente una partita per non ferire l'orgoglio di un ragazzo. Mai. Posso fingermi esperta di letteratura russa, di calcio, dei cicli riproduttivi delle piante carnivore, della lana merinos e dei problemi intestinali dei Cocker Spaniel. 

Davanti ad un biliardino io gioco tosto. E sono fatti suoi.

Vostra e sciagattante,

Platypus

lunedì 13 gennaio 2014

Reincarnazioni

-No, perché io in un'altra vita merito di reincarnarmi in qualcosa di figo a mia scelta.
-In che senso Platypus?
-Ecco, diciamo che merito di reincarnarmi in un fenicottero. Alta, magra, rosa e flessuosa.
.Si, ma in un insieme di fenicotteri alti, magri, flessuosi e rosa, c'è sempre un fenicottero meno alto, meno magro, meno flessuoso, meno rosa.
-Ti odio.
-Sei tu che sei imprecisa. Dovresti dire mi voglio reincarnare nella Kate Mosse dei fenicotteri.
-Che comunque buttala via.
-Già. La fenicottera che si mangia un seme di girasole, si ficca due dita in gola e lo vomita. Ma essendo un fenicottero non potrai ficcarti due dita in gola.
-Vabbè, come Kate Moss sarei un fenicottero che pippa cocaina.
-E come le fai le strisce? Con cosa le espiri che non hai il naso? Vedi, anche la vita da Kate Moss fenicottero ti darebbe problemi.
-Allora mi reincarnerò in uno struzzo.
-Maschio o femmina?
-Maschio. Hai presente le dimensioni delle uova di struzzo? No grazie.

La sessione genera mostri.
Vostra sciagattante,

Platypus

domenica 12 gennaio 2014

Someone like you? Anzi una scimmietta.

Le incongruenze mi fanno prudere i pollici. In una maniera assurda, non vi dico, anche perché gli ornitorinchi i pollici non li hanno. Immaginate che confusione. Allora diciamo che mi fanno prudere la punta delle zampette palmate. Comunque un fastidio. [E si, lo so che in inglese la frase idiomatica mi prudono i pollici si usa per altro, ma concedetemi questa piccola licenza]. 
Alle radici di questo mio piccolo fastidio, c'è una donna. E che donna. In realtà ha solo quattro anni in più di me, ma vive praticamente su un altro pianeta. In realtà la cosa mi turba tanto perché la sua incongruenza originaria ha portato ad una cascata di incongruenze in tutto il mondo. Qualcuno rimetta ordine. 

Lei, l'origine del problema, è Adele Laurie Blue Adkins, a tutti nota solo come Adele. No, non sono impazzita, non è un post che sarà dettato da un mio odio verso le sue canzoni, che anzi mi piacciono e trovo molto gradevoli. No, è un post che eviscera una realtà oggettiva.

Il problema è "Someone like you". No, tipo, presente, la canzone strappalacrime e lacrimestrappa su una tipa che dopo una rottura finge di fare la forte e dice: "Sai che? Frega niente, troverò uno come te". Poi si gira e giù secchiate di pianti, bidoni di gelato al cioccolato e corti di amiche che le dicono di stare tranquilla, che lui era uno stronzo, ma va, non ti meritava e tutte le frasi del caso, presente, no? La canzone che non si ascolta immediatamente dopo la rottura, ma nel momento in cui si vede l'ex avvinghiato ad un altro individuo dell'opposto o dello stesso sesso, avvinghiato così stretto e con la lingua così a fondo nella gola che non è più un bacio, ma una gastroscopia. Quando non è neanche più ripensamento, ma senso di possesso, quel giocattolo era mio, ridammelo. La fase che viene poco prima del bivio tra il "Lo riconquisterò" [errore, errore madornale] ed il "ci metto una pietra sopra" [senza specificare se sulla storia o sull'ex].
Ecco, proprio questa canzone qui. 

Singolo di successo del secondo album di Adele, 21, quando lei già aveva perso un bel po' di chili inutili. No, non sto parlando della perdita di peso, ma di quel peso morto che era il suo ex ragazzo. Ex ragazzo che entra a pieno diritto nella categoria di animali su due zampe. Già, perché il caro mostriciattolo aveva lasciato Adele prima del suo debutto discografico con 19. E aveva avuto il coraggio di chiedere una percentuale dei diritti sul disco, perché la sofferenza da lui causata alla cantante le era stata d'ispirazione. Rendiamoci conto del tipo umano. Uno così è anche capace di mandarti a comprare i preservativi e finirli con quella con la quale ti cornifica. 

E poi Adele scrive Someone like you. Ma bella, ci tieni veramente a trovarne un altro del genere? Come lui, pari, pari, eh, mi raccomando. Rendiamoci conto:Adele è il sogno di come dovrebbe andare una storia di rivincita su una rottura. La bestiolina ti lascia male? E che sarà mai, io torno un po' in forma, divento un'artista di fama mondiale, vinco premi ed anche un Oscar, mi trovo un uomo degno di essere annoverato tra gli Homo Sapiens e ci faccio una bambina. E tu, caro mio ex devi solo metterti in un angolo a rosicare, forte della tua posizione di Australopithecus, senza offesa nei loro confronti. 
Someone like you? Ma per piacere. Somone  like better than you, minimo.  

"Caro ex, ho fatto i sordi e a te niente. Stacce"

Invece no, migliaia di donne al mondo piagnucolano mugolando Someone like you e su amori finiti. Perdonatemi, ma io qui sollevo un'obiezione: se è finita è perché lui era così, e voi eravate pomì. Ma credete veramente che con una persona con lo stesso carattere andrebbe meglio? Io avrei seri dubbi. Perché se ci si lascia con la propria metà perché la sua massima aspirazione è di fare il tubero sul divano, beh, difficilmente la felicità sarà con qualcun altro che vegeta in poltrona. 
Diffido di tutte quelle persone che dicono che no, non era un problema di carattere, ma di tempi, ci siamo incontrati nel momento sbagliato, ma lui/lei era tutto quello che io avesi mai sperato di avere e trovare nella mia vita ed un giorno arriverà qualcuno come lui/lei. Scusate, sarà semplicistico, ma non riesco a crederci. Io credo nel fallimento delle relazioni seriali sempre con lo stesso tipo di persona. 

E quindi Adele, donne e uomini di tutto il mondo, basta lagnarsi dell'amore perduto, dato che in una coppia che scoppia c'è sempre uno stronzo. E se non è l'altro...

"Mazza Platypus, seid'una finezza disarmante"
Vostra e sciagattante,

Platypus


sabato 11 gennaio 2014

R[h]ome, ancora.

Tornare a Roma è sempre una grande emozione. Sarà stato il viaggio,dove come ogni volta mi hanno accusato di essere seduta al posto sbagliato. Come ogni volta era la persona seduta accanto a me che si era indebitamente appropriata del sedile, ma io sono giovane e quindi delinquente. Vabbè. Sarà stata la valigia, trasportata in metro in barba ad ogni legge della fisica. E del buonsenso.
Una valigia piena di libri, vestiti e scarpe. Seguirà pacco con dolci da distribuire ad amici e conoscenti. Ed altri vestiti. Ed altre scarpe.
"Viaggi come nell'Ottocento, con il grosso del bagaglio al seguito", brontola Madre ogni volta che parto. Non ho cuore di negare.

Essere tornata a R[h]ome significa anche che i miei buoni propositi in fatto di nutrizione sono sempre messi a dura prova. "Zero, zero carboidrati, io non mangio più i gelati, ai lipidi ho detto stop", canta Immanuel Casto, ed io ci provo, ci sono riuscita con zelo per due giorni, fino a ieri sera.
La mia amica C. mi chiama.
-Platypus, stasera kebab.
-Eh si, dato che questo Natale mi sono tenuta leggera.
-No, ti ripeto, stasera Kebab.
-Non mi convinci.
E poi non so come eravamo in fila dal nostro kebabbaro di fiducia. 

Essere a R[h]ome ha significato prendere questo kebab e mangiarlo da asporto, a casa sua e farci un tea per bere qualcosa, perché l'acqua era finita. La sana alimentazione degli studenti fuori sede.
Si è ripresa anche la cara vecchia abitudine di spararci serie tv durante i pasti. 
Grazie al cielo è ricominciato Sherlock, che ci terrà lontane da Grey's Anatomy per un po'. 
Su Sherlock si è già detto e scritto tanto, quindi non starò qui a tediarvi, ma si sappia che io penso di essere innamorata un po' di lui. Giusto per non farsi mancare nulla.



Ho concluso la serata con una sigaretta alla finestra, ghiacciandomi fino alle tonsille. 
Ed ho pensato che anche questa è casa.

                                          Platypus

mercoledì 8 gennaio 2014

Philomena, Frears

C'è voluto una motivazione molto forte per accettare di andare al cinema alle 18.00 del 6 gennaio. Appena arrivata davanti ai miei occhi si stendeva un tappeto di bambine starnazzanti. Un muro di personcine pigolanti sotto il metro e trenta che andava a vedere Frozen. Per arrivare a fare i biglietti è stato necessario scavalcarle, letteralmente. E poi le dolci manine appiccicose di dolcetti che sfioravano il mio giubbotto...Non ero in visibilio. Ma alla fine ce l'abbiamo fatta e siamo riusciti ad entrare. Il motivo che mi ha spinto a tutto questo è stato Frears ed il suo film, Philomena.
Vorrei poter dire di essere un'esperta di cinema, ma invece nein, sono una mera spettatrice. Quindi non vi sciorinerò l'opera omnia di Frears, nominandovi i film meno conosciuti e spiegando le varie influenze subite ed suscitate sul cinema inglese dagli anni Ottanta ad oggi. Di suo non ho neanche visto Alta Fedeltà (del quale mi manca anche la lettura del romanzo di Hornby, quindi direi che è più che accettabile). Ho visto però The Queen, perfetto per una persona come me, cresciuta con storie delle buonanotte che spaziavano dai miti greci ai pettegolezzi sulla famiglia reale britannica. Meno conosciuto, ma anche bellissimo gioiellino è  Lady Henderson presenta, senza parlare poi di Cherì, godibile e perfetto per i giorni di sindrome pre mestruale, accompagnato da gelato al cioccolato. Di Frears ho anche in hard disk My beautiful Laundrette, passatomi da C., due anni or sono. Prima o poi mi deciderò a vederlo.

La battuta più bella di tutto il film:
Martin, I didn't even know I had a clitoris
!
Ovvero l'educazione sessuale dei cattolici negli anni '50.
Philomena, dunque. Tratto da una storia vera, racconta della ricerca di una madre. Quando partorisce in Irlanda a metà degli anni 50, Philomena ha diciotto anni ed è una ragazza madre. La conseguenza è quasi ovvia: rinchiusa in un istituto di suore è obbligata a dare in adozione il bambino, minacciata per farle mantenere il silenzio. Silenzio che durerà cinquant'anni, un matrimonio ed altri due figli. Aiutata da un cinico e disincantato giornalista inglese, suo opposto, parte alla ricerca del suo bambino. 

La vicenda poteva essere trattata in maniera scontata: una ricerca con due personaggi opposti o molto diversi, una storia strappalacrime, si sarebbe facilmente rischiato di cadere nella solita minestrina riscaldata. Eppure Frears evita questo rischio. Pur essendo molto diversi i personaggi non scadono mai nel banale. Martin Sixsmith (Steve Coogan) è il classico personaggio  molto british, molto colto, molto razionale molto cinico. Philomena Lee (Judy Dench) è una donna semplice, che nonostante tutto il male subito, riesce a perdonare e a mantenere la sua fede. Perché in realtà è la fede il centro nevralgico della vicenda: si potrebbe pensare che con tutto quello che la Santa Madre Chiesa Cattolica le ha fatto, Philomena sputi veleno al solo sentirla nominare. Invece no. Il suo credo è la sua forza. Bello da vedere, per carità, ma il mio personalissimo approccio sarebbe più simile a quello del giornalista, che non esita ad esprimere le sue opinioni alle suore dell'istituto.

L'istituto altro non è che una di quelle case di correzione che si erano già viste e denunciate in Magdalene, di Mullan. Film che ho visto alla tenera età di undici anni, giusto per acuire la mia paura delle suore. Potrei anche aver spizzato una citazione di questo film in Philomena, nel viso di una delle ragazze compagne di sventura della protagonista. Ovviamente è tutto molto aleatorio e non metterò su l'aria da saputella che sembra confarsi così tanto ai veri cinefili.


Straordinaria in tutto il film la Dench. Brava, non ha paura di mostrarsi nei primi piani in tutta la sua età, e chissene delle rughe, delle zampe di gallina o simili. Tanto si era resa odiosa in Diario di uno scandalo, tanto riesce umana e adorabile in questo film. Pianta nella telecamera quegli sguardi lucidi e taglienti come acciaio e ti ammutolisce con la loro espressività. E si, lo so che è Judy Dench, mica piccolezze, ma c'è solamente da starsene zitti, piangere e ridere.

Si, perché la grandezza di Frears sta anche nell'inserire momenti innegabilmente comici, di quell'humour inglese elegante e sottile.

Due parole anche sul poster promozionale: secondo me rende meglio quello inglese, rispetto a quello italiano. Sarà il fatto che rende meglio la dimensione del film, che non vuole essere completamente seria e tragica, ma vuole mantenere una certa leggerezza. Senza contare che potrebbe attrarre anche un pubblico più vasto, giusto per dire. Ma queste finezze di marketing in Italia non vengono recepite, altrimenti come si farebbe a chiudersi in quella bella torre d'avorio degli pseudo intellettuali, che vedono solo film premiati ai festival e leggono solo best seller, ma-culturali-per-carità? Senza contare che il poster italiano richiama volutamente quello di The Queen, per la posizione dell'attrice protagonista. 






Ne è valsa la pena. Anche scavalcando orde di nanetti elettrizzati per Frozen (che è nella mia lista di film da vedere).

Vostra e sciagattante.

Platypus

lunedì 6 gennaio 2014

A serious reading problem - 1

La befana si porta via tutte le feste ed io,piccola scrivana pugliese, a lume di candela lampada, mi dedico allo studio e alla lettura. Approfittando della vasta libreria di casa e della comoda poltrona Ikea, che ha ormai un'impronta del mio sedere che manco la Hall of Fame ad Hollywood, mi sto dedicando ad un'orgia di letture, un piacere voluttuoso che ruba tempo allo studio, ma capita.

Dal primo gennaio sono a quota tre libri letti, di varie lunghezze e che hanno avuto un vario eco nella mia psiche.

Il primo fortunato è Il gioco di Ripper di Isabel Allende. In passato io ho adorato tutti i suoi libri, Paula in testa, sia i romanzi classici che la trilogia dedicata ai ragazzi. Continuando con le letture, però, ci si accorge perfettamente del pattern che emerge in ognuna delle sue storie, con personaggi principali problematici, con genitori assenti e figure di nonni che suppliscono, amori passionali che accendono i sensi, predestinazione astrale degli amanti. Il pattern viene meno in Zorro (che infatti ho molto apprezzato). Ci sarebbe stato da sperare che venisse meno anche per Il gioco di Ripper, dato che si tratta di un giallo, ma Nein, questo non accade. Godibile, carino, ma non mi ha dato molto. 

Secondo libro dell'anno La rivincita di Gemma, di Libba Bray. La spiegazione del perché questo libro è semplice: in giovinezza [sic] ho letto i primi due libri della trilogia e dovevo sapere come sarebbe andata a finire. Non per una particolare passione, quanto per curiosità. Il libro è carino, ma si dilunga troppo. A sedici anni l'avrei adorato. 

The third is the charm: Le braci, di Sàndor Màrai. Si tratta chiaramente della scoperta dell'acqua calda, ma si tratta di un libro che ho inseguito per mezza Italia. Dopo aver letto La donna giusta, passatomi da C. (sempre tu sia lodata), avevo inserito Le Braci nella mia lista di libri da leggere. Lista che rimane invariabilmente a casa quando vado in libreria. O che mi porto dietro, ma quando questo succede, di solito il libro non è presente né sugli scaffali, né in magazzino. Alla fine in queste vacanze sono riuscita nel criminoso intento, conquistando la mia personalissima e già orecchiata copia. 
L'anatomia della psiche dei personaggi è precisa ed impietosa, l'ambientazione per quanto non descritta è lì: un cupo castello ungherese, inizio Novecento, abitato da ricordi più che da persone. Protagonisti due anziani, amici in gioventù che si rivedono dopo quarantun anni. Si incontrano, ma sono ancora amici, cosa è successo il giorno della partenza di Konrad? La storia si disvela nelle parole, nelle pause, nella scoperta stessa di cosa sia l'amicizia e cosa definisca il suo tradimento, semplicemente Cherchez la femme o qualcosa in più? 

Sono rimasta a leggerlo tutta la notte. Infatti stamattina sembravo veramente la Befana, con contorno di battute da parte di tutta la mia famiglia. 

Ma io conosco la causa delle mie occhiaie e dei miei capelli elettrizzati. Ho una dipendenza e non voglio fare assolutamente nulla per combatterla.

Vostra e sciagattante,

Platypus

domenica 5 gennaio 2014

Madre e tecnologia, io nel mezzo

Oggi affronterò un problema che attanaglia milioni di giovani al mondo. Il problema più grande, prima ancora della disoccupazione, prima dei contratti a termine, prima della ceretta tattica prima del terzo appuntamento. Si tratta di un problema affrontato già magistralmente da un grande sociologo dei nostri tempi, Zerocalcare. 

Insegnare ai genitori a usare il pc. O risolvere i loro problemi con la tecnologia. 
Quando ero a casa non c'era tanto bisogno, bastava che mia madre lanciasse un grido ed io arrivavo, pronta a sistemare il computer bizzoso e rissoso. Implicito che se dopo il mio intervento qualcosa non dovesse funzionare, la colpa ricadrà su di me e sui miei discendenti, fino alla settima generazione. Ma i tempi felici in cui ero a distanza di due stanze sono finiti. Adesso mi limito a fare ciao ciao con la manina da Roma, mentre mia madre si arrangia. Ma Madre non è donna da perdersi d'animo. Madre studia, Madre si documenta, Madre si applica. 
La mia reazione alla frase: "Platypus, se poi hai cinque
minuti, mi devi spiegare come funziona..."
La tendenza che ha preso piede da quattro anni è il tutorial. Mica il video tutorial, nono. Il tutorial realizzato da me a Madre sul pc, mentre Madre scrive e riassume i procedimenti. Ha proprio un'agenda dedicata al far funzionare le cose. C'è una pagina sul lettore DVD,una dedicata al frullatore, Skype, fare i biglietti su RyanAir e Trenitalia, Dropbox, Gmail e Facebook. Tutto scritto, passo dopo passo. Grazie al cielo Madre è un'alunna sveglia, se ne intende abbastanza da non chiamarmi per dirmi che "è sparito Google"[1]. Però ha avuto anche lei i suoi momenti, nei quali il panico faceva da padrone. Ho passato anche io la mia buona porzione di pomeriggi al telefono da Roma, spiegandole che no, non era possibile che Facebook si fosse rotto e che no, non potevo hackerare il profilo Facebook di mia sorella per farle accettare la sua richiesta di amicizia.

Questo Natale è stato il momento di Torrent. 
Stufa di dipendere da me e da mia sorella per scaricare film, Madre ha deciso di emanciparsi. Dopo averle debitamente installato il programma, ci siamo sedute al pc , pronte per il tutorial. Tra i suoi occhi si è aperta la solita rughetta di concentrazione, la mano brandiva la penna, l'agendona fabbricona era aperta sulle sue gambe ed io avevo già l'ansia da prestazione per la lezione.
-Allora Madre, quando cerchi un film ti conviene ricercare il nome del film, seguito da torrent.
-E me lo trova subito in italiano?
-Magari aggiungi ita alla ricerca.
-Ita? Si dice italiano.
-Per cercarlo su internet metti ita e ti trovi bene.
-Barbari.
-Allora, adesso lo abbiamo cercato e scarichiamo il file.
-Ha già scaricato il film?
-No Madre, questo lo devi aprire in Torrent e poi si mette a scaricare. Però devi trovare un file affidabile, controlla sempre le recensione ed il numero di seeders, che sono...sono...
-Che sono?
-Sono il numero delle persone che stanno condividendo quei file. [Quando ho pronunciato queste parole ho sperato che contenessero un minimo di verità. Ammettere di non sapere con mia madre mina tutto il processo di fiducia e di conferimento di capacità tecnologiche].
-Va bene. Allora poi lo apro in Torrent e poi?
-Poi lui scarica. lo puoi stoppare, rimuovere...
-E quelli sono i simbolini?
-Si.
-Il triangolino verso destra è il riprendi?
-Si.
-Ok.

Mia madre ha scritto, abbiamo fatto un'esercitazione, le ho creato un collegamento sul desktop con la cartella Download, ha provato lei a scaricare un file.
Ho abbastanza paura.  Soprattutto tremo e temo il momento in cui mi arriveranno telefonate su film che non si aprono, film che in realtà sono porno e film in uzbeko stretto con sottotitoli in urdu.
Allora sarò lontana. Vi ho mai detto della mia straripante voglia di non rispondere mai al telefono?

Per lo meno Padre ha un atteggiamento univoco: fa danni. E basta.

Vostra e sciagattante,
Platypus
[1] (regalino: quando alla fiera della Piccola e Media Editoria abbiamo incontrato Michele Foschini che ci ha parlato dell'esistenza di una telefonata registrata da ZeroCalcare in cui sua madre si lamenta della scomparsa di Google. Bramo quel file.)

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